Il contributo di Daniele Archibugi, Laura Pennacchi, Edoardo Reviglio ha il merito di alzare il livello del confuso dibattito in corso sulla crisi scatenata dall’epidemia, nel quale si ritrova la classica contrapposizione tra gli “apocalittici”, che vedono la crisi come l’ennesima manifestazione e conferma che i mercati sono inefficienti e destinati all’inesorabile tracollo, e all’opposto gli “integrati” che esprimono la fiduciosa attesa che i mercati saranno presto in grado di ritrovare la via dell’equilibrio. I primi abbondano di riferimenti e confronti con le crisi del 1929 e del 2008 e sollecitano interventi strutturali degli Stati, i secondi sottolineano il carattere esogeno della crisi e chiedono interventi pubblici congiunturali e di tamponamento nella certezza che, riportati alle condizioni che precedevano la crisi, i mercati tornino a svolgere il ruolo di coordinamento tra domanda e offerta e allocazione ottimale delle risorse.

Lontano dalle tesi degli uni e degli altri si collocano quanti ritengono che i sistemi economici siano caratterizzati da intrinseche e costitutive condizioni di disequilibrio, per la continua introduzione di innovazioni organizzative e tecnologiche e le ondate di distruzioni creative che esse mettono in moto: il disequilibrio è la causa e la conseguenza del cambiamento e della crescita, esso spinge le imprese al cambiamento che a sua volta rinnova le condizioni del disequilibrio da cui scaturisce la crescita. I sistemi incapaci di alimentare la risposta creativa delle imprese si adagiano progressivamente in un equilibrio che assume i caratteri della stagnazione e del declino.

I mercati non sono mai in equilibrio, le crisi si succedono e accompagnano continui processi di selezione, accelerazione, declino e recessione. La crisi in corso non ha nulla spartire con le crisi del 1929 o del 2008. Quelle furono perfette crisi endogene prodotte dall’entusiasmo dell’euforia finanziaria che seguiva e al tempo stesso aveva permesso le grandi ondate innovative degli anni venti e delle ultime decadi del XX secolo. Quest’ultima rappresentazione dissente, con pari vigore, dalle interpretazioni rassicuranti di quanti ritengono che interventi congiunturali di redistribuzione del reddito siano sufficienti a riportare i mercati in condizioni di equilibrio.

Il potente shock esogeno innescato dall’epidemia incide in profondità sulle condizioni di disequilibrio, le accentua e anzi le esalta, accelerando e rafforzando la dinamica della distruzione creatrice. La politica economica di un Paese già in declino da circa venti anni deve evitare l’assistenzialismo privo di indirizzo e visione, promosso sia dagli apocalittici che dagli integrati. Le due rappresentazioni del mondo trovano, infatti, in Italia un facile punto di convergenza nel sollecitare la distribuzione indiscriminata e a pioggia di risorse. All’interno della convergenza di fondo si producono piccole controversie sulla ripartizione delle risorse, nel comune e condiviso principio che nessuno debba essere lasciato indietro, né famiglie, né imprese, né proprietà immobiliare, né settori rimasti perfettamente operativi nelle settimane di quarantena e tuttavia premiati da significativi e incomprensibili sgravi fiscali.

Il presente contributo condivide appieno la sollecitazione di Archibugi Pennacchi e Reviglio a ampliare il respiro della politica economica che è indispensabile mettere in campo nel momento in cui si affrontano le conseguenze della crisi epidemica. La consapevolezza della difficoltà di prevedere le dinamiche dei sistemi complessi dovrebbe tenere lontani da eccessi di dirigismo, addirittura tecnologico, specie quando si parli di Paesi di dimensioni medio-piccole. Dalla consapevolezza delle dinamiche della distruzione creatrice può e deve scaturire la capacità di individuare le debolezze del sistema economico italiano e quindi l’elaborazione di interventi strategici che si collochino nel contesto delle politiche di rilancio.

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La politica economica ha sinora ritenuto di dover privilegiare il recupero della “liquidità” favorendo l’accesso peraltro indiscriminato al credito agevolato. Ma la quarantena ha aggravato la intrinseca debolezza finanziaria delle imprese italiane, gravate da un indebitamento eccessivo e dalla carenza di mezzi propri. La debolezza finanziaria delle imprese italiane non dipende certo dalla mancanza di risorse finanziarie che abbondano nel sistema in cui la ricchezza patrimoniale delle famiglie si colloca ai vertici delle graduatorie mondiali, con il legittimo sconcerto di quanti analizzano le dimensioni imponenti del debito pubblico.

La debolezza finanziaria delle imprese italiane e perfino la mancata crescita negli ultimi lustri trovano nella assenza di un mercato finanziario adeguato una spiegazione efficace. Le imprese italiane non sono in grado, da troppi anni, di abbandonare il capitalismo familiare da cui sono per altro scaturite. Le imprese italiane non si quotano in borsa e si indebitano. I valori irrisori del rapporto tra capitalizzazione di borsa e Pil del caso italiano confermano la gravità quasi patologica della debolezza finanziaria del sistema produttivo italiano. Le famiglie proprietarie non sono più in grado di sostenere gli investimenti delle loro imprese.

La crescita delle piccole imprese ha creato le premesse per il loro declino perché le esigenze finanziarie non sono più compatibili con la distribuzione dei diritti di proprietà. I mercati otc (over-the-counter) dei diritti di proprietà di imprese private (non quotate) sono afflitti da enormi problemi di opacità e mancanza di liquidità. Le banche sono diventate, da lustri, di fatto l’unica fonte di risorse per la crescita. Il ricorso eccessivo al credito bancario indebolisce le imprese convertendo non solo i profitti in costi d’uso del capitale, ma anche, nelle fasi negative del ciclo, costi d’uso del capitale in perdite, creando circuiti perversi nelle relazioni tra banche e imprese.

Il protrarsi del controllo familiare impedisce la selezione di capacità manageriali, l’avvio di processi di concentrazione, M&A, investimenti in attività di R&S ad alto rischio. La povertà dei mezzi propri impedisce la maturazione delle imprese italiane che si rende necessaria al termine della fase eroica di fondazione e crescita dominata dalla figura dell’imprenditore. La debolezza del mercati dei diritti di proprietà è certamente una delle cause strutturali del declino italiano

La distribuzione a pioggia di finanziamenti a fondo perduto in assenza di una visione strategica sembra improponibile, tanto più in presenza delle fortissime e crescenti diseguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza. Non si può accrescere la concentrazione della ricchezza. Si deve intervenire per porre rimedio alla debolezza finanziaria delle imprese, non degli azionisti che già concentrano nelle loro mani quote del tutto anomale della ricchezza nazionale. Si rende quindi necessario un intervento che entri nel merito della struttura finanziaria delle imprese italiane e orienti l’intervento di sostegno finanziario verso obiettivi di rilancio non solo contingente. È opportuno individuare tre distinti livelli di intervento: i) l’arretratezza digitale delle piccole imprese; ii) la debolezza finanziaria delle imprese medio-grandi; iii) il livello continentale.

L’arretratezza digitale dell’economia italiana e le carenze della dotazione di capitale umano e tecnologico sono evidenti. Non solo finanziamenti agevolati ma soprattutto contributi alle perdite, documentate da bilanci di società per azioni, devono essere messi in campo fino ad un massimo del 30%, ma erogati con chiari principi di indirizzo volti a sostenere la diffusione e l’adozione capillare di tecnologie digitali e l’ispessimento delle competenze tecnico-scientifiche. Il sostegno pubblico a investimenti mirati e contenuto tecnologico specifico va collegato all’ammodernamento prescrittivo dell’intero apparato di interazione con le pubbliche amministrazioni.

L’erogazione di finanziamento pubblico agevolato alle imprese minori deve assumere l’obiettivo della modernizzazione digitale e definire quote minime di finanziamento all’acquisto di beni e servivi a forte contenuto digitale. Al fine di aumentare la dotazione di capitale umano e tecnologico, le piccole imprese che percepiscono finanziamenti agevolati saranno vincolate a: i) accrescere la quota di spese del personale dedicata a lavoratori altamente qualificati con titolo di dottorato in ricerca; ii) destinare una quota del fatturato ad attività di ricerca intramuros e/o contatti di ricerca con il sistema della ricerca accademica.

Per quanto riguarda le imprese medie, appare necessario combinare l’erogazione di risorse alle imprese con il perseguimento di un’azione volta a ridurne l’intrinseca debolezza finanziaria attraverso la partecipazione all’aumento del capitale e la loro contestuale quotazione nel mercato finanziario. Lo Stato parteciperà all’aumento di capitale acquisendo diritti di proprietà riconducibili al modello delle azioni di risparmio. I titoli di proprietà così acquisiti dovranno essere progressivamente collocati sul mercato finanziario aumentando il flottante e favorendo l’evoluzione delle strutture proprietarie verso modelli di public company compatibili con noccioli di controllo familiare, ma tali da esporre l’impresa a modelli di contendibilità e trasparenza non solo contabile, soprattutto strategica. Anche per le imprese di medie dimensioni l’erogazione di risorse deve essere vincolata all’aumento: i) dell’occupazione di personale con elevate capacità di ricerca; ii) delle attività di R&S intramuros e/o affidate a laboratori universitari

L’intervento di sostegno alle grandi imprese deve assumere l’obiettivo della partecipazione rafforzata a progetti continentali di innovazione radicale. Di fatto la storia economica del XX secolo insegna che solo gli Stati Uniti sono stati in grado di promuovere una rivoluzione tecnologica. La storia è nota e parte dalla straordinaria capacità di indirizzo del DoD che seppe guidare la nascita della rivoluzione digitale per motivi dichiaratamente e consapevolmente militari. Gli Stati Uniti seppero combinare la competenza e la perseveranza dell’apparato militare e industriale con la dotazione di risorse economiche imponenti e strutturali. La dimensione nazionale, nel caso di ogni singolo paese europeo, è del tutto inadeguata. La costruzione e la realizzazione di un progetto di indirizzo tecnologico di respiro ventennale non può che essere progettata al livello dell’Unione Europea.

Un’azione di indirizzo strategico delle grandi imprese nazionali per favorirne l’integrazione nell’ambito comunitario a piattaforme continentali cui partecipino le grandi imprese europee potrà avvalersi anche dell’erogazione di risorse finanziarie a titolo di aumento di capitale e conseguente acquisizione di quote proprietarie. Il sostegno alla ripresa sarà l’occasione per inaugurare un intervento strutturale dello Stato nelle grandi imprese nazionali. La presenza pubblica con significative quote di minoranza non solo rafforza la condizione patrimoniale delle imprese ma è anche elemento di rafforzamento nel gioco continentale, dove la partecipazione a progetti di indirizzo tecnologico vede la presenza sistematica di imprese francesi e tedesche irrobustite dalla forte presenza dei rispettivi Stati nazionali.

Una ricognizione attenta dell’evoluzione del capitalismo italiano nel contesto europeo indica, infatti, accanto alle tante debolezze, anche elementi di forza che vanno colti e rafforzati. La presenza di forti minoranze pubbliche nell’azionariato delle grandi imprese è stata un elemento di forza e visione strategica. Si è venuto configurando, in modo spesso inconsapevole, un modello di successo che deve essere valorizzato e replicato. Una quota di proprietà pubblica che assuma il carattere di capitale lungimirante rafforza le prestazioni di imprese ad azionariato diffuso e esposte alle valutazioni della finanza internazionale.

Si pensi ai casi Eni, Enel, Leonardo, Finmeccanica: imprese che hanno progressivamente assunto carattere di public company ad azionariato diffuso sviluppando una straordinaria crescita dell’occupazione e dei profitti. Un esito che contrasta significativamente il declino di molte imprese privatizzate senza cautele e abbandonate ad un capitale familiare rapace (Riva, Benetton) o alle speculazioni della finanza internazionale (Tim).

Cristiano Antonelli è docente di Economia e statistica, Università di Torino e Brick (Bureau of Research in Innovation Complexity and Knowledge), Collegio Carlo Alberto.