Torna ancora la prassi di inserire norme che nulla c’entrano con i decreti all’interno dei quali sono inserite, forse per evitare che se ne parli troppo o, più probabilmente, per far sì che vengano comunque approvate. All’interno del decreto che interviene sui decreti sicurezza a firma Salvini, e che ne migliora diverse previsioni, sono state inserite norme che meritano una riflessione, e che riteniamo sarebbe utile stralciare. La prima riguarda il fatto che diventa reato l’introduzione di telefoni cellulari all’interno degli istituti carcerari, con pene che prevedono la reclusione da uno a quattro anni, che diventano da due a cinque se il (nuovo) reato è commesso da un pubblico ufficiale o da un avvocato. Si prosegue, quindi, nell’ampliamento delle fattispecie di reato che prevedono la reclusione, invece di provare a ragionare su altre misure sanzionatorie, e su misure alternative alla reclusione.

Nel caso specifico, dei telefoni cellulari, è ovvio che ci siano  indispensabili esigenze di sicurezza, che fanno sì anche che si debba tener conto delle imprescindibili esigenze di sicurezza e prevenzione di atti criminosi, impedendo in ogni modo qualsiasi contatto con l'esterno, quando finalizzato a mantenere legami con le organizzazioni criminali. Ma sappiamo come, a seguito della pandemia, i colloqui dei detenuti con i familiari hanno subito interruzioni, poi limitazioni, e sappiamo che un detenuto ha diritto ad una sola telefonata settimanale di 10 minuti e 6 incontri al mese con i familiari di un'ora. E non possiamo dimenticare che l'ordinamento penitenziario prevede che si dedichi particolare cura a mantenere, migliorare, ristabilire le relazioni con la famiglia e che anche le persone ristrette hanno diritto all'affettività.

Allora, poiché per tantissime persone il cellulare rappresenta il modo per comunicare con la famiglia, con i figli, con i genitori, non sarebbe più semplice, ma soprattutto più giusto, fare come è stato fatto in altri paesi europei, che prevedono un telefono (che può essere adeguatamente gestito dall'istituto penitenziario) in ogni cella? Si introducono, poi, sanzioni più elevate rispetto all’art. 41-bis, aumentando di fatto l’isolamento delle persone sottoposte a tale regime, perché riguardano, appunto, la sanzionabilità del detenuto che comunica con altri. Giova al proposito ricordare che, a seguito di ricorsi presentati nel passato, alcune forme di comunicazione sono state riconosciute dalla Cassazione come un diritto che non inficia le esigenze di sicurezza previste da tale articolo. Ma le pulsioni securitarie e giustizialiste questo reclamano; quando le evidenze e, soprattutto, le sanzioni della Cedu ci parlano, invece, della necessità di rivedere tutto il regime detentivo previsto da questo articolo.

Ancora più gravi appaiono le norme che prevedono ‘tolleranza zero’ per le risse, già ribattezzate, con operazione davvero poco dignitosa e affatto rispettosa del ragazzo morto, “decreto Willy”. Come se bastasse un Daspo anti risse a far sì che queste non si verifichino più, e non fossero invece necessari ben altri interventi, di politiche sociali, che invece non vengono assolutamente perseguiti. In più, il Daspo si applica a chiunque sia stato denunciato, è un provvedimento che limita fortemente non solo le libertà personali e di movimento, senza alcun provvedimento penale a carico della persona oggetto della sanzione, ma rappresenta un colpo allo stato di diritto, in quanto elude le garanzie del campo penale, prima fra tutte il diritto alla difesa.

Non si risponde alla disgregazione sociale, all’impoverimento culturale, con l’aumento delle pene o con il divieto a frequentare alcuni luoghi: la storia ci dovrebbe insegnare che non è con l’inasprimento delle pene che si ottengono risultati. Ancora una volta si è scelto di dare risposte di facciata, che inseguono e fomentano il giustizialismo dei troppi che vogliono carcere più duro e “buttar via la chiave”, invece di avere il coraggio di affrontare seriamente i problemi che stanno alla base di tanti comportamenti. Dovremmo parlare di abbandono scolastico, di precarietà e disoccupazione, di falsi miti proposti ai giovani da una società dell’apparenza e del guadagno facile, dove vince il più forte. Ma questo è.

Denise Amerini è responsabile Dipendenze dell’Area welfare della Cgil