Il 4 luglio 1958 nasceva a Casal di Principe don Peppe Diana, assassinato il 19 marzo 1994 dalla camorra per il suo impegno antimafia. Negli anni del dominio assoluto della Clan dei Casalesi, legato principalmente al boss Francesco Schiavone, detto "Sandokan", don Giuseppe Diana cerca di aiutare le persone nei luoghi resi difficili dalla camorra.

Alle 7 e 20 del 19 marzo 1994, mentre si accinge a celebrare la messa, il sacerdote venne assassinato nella sacrestia della chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe con cinque colpi di arma da fuoco, due alla testa, uno al volto, uno alla mano e uno al collo.

“Giuseppe Diana era un sacerdote - scriveva il giorno successivo su l’Unità Walter Veltroni - un giovane sacerdote di 36 anni. Lo hanno ucciso, sparandogli in faccia, mentre sì preparava a celebrare la messa, la prima messa di un giorno qualsiasi. Un giorno qualsiasi in un luogo qualsiasi di quella Italia segnata, ancora, dalla presenza della camorra e della malia. Don Peppino Diana è morto, come padre Puglisi o tanti altri parroci e sacerdoti che rischiano la loro vita cercando di aiutare il loro prossimo battendosi per stare vicino a chi soffre, ribellandosi ai potenti e ai criminali. Ucciso in una chiesa, come monsignor Romero. Ucciso per aver testimoniato contro la camorra. O forse ucciso perché aveva firmato un documento che denunciava l’intreccio tra politica e poteri criminali. O perché don Peppino Diana era impegnato nel sociale, aiutava gli extracomunitari, si spendeva per chi era debole. Da qualsiasi parte la si prendesse la vita di questo ragazzo prete era comunque incompatibile con gli interessi della camorra. Qui sta la grandezza, da eroi, della missione alla quale le coscienze religiose e civili di questi uomini sentono di dover assolvere”.

“Un vile atto criminale”, nelle parole del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. “Un delitto agghiacciante - gli faceva eco Giorgio Napolitano - che mostra come la camorra non esiti a colpire più brutalmente di quanto mai avesse fatto un sacerdote in chiesa, nel tentativo di fermare il cammino della giustizia”.

“Chi è don Peppino? Sono io - scriverà Roberto Saviano - L’ultima risposta. Cinque colpi che rimbombarono nelle navate, due pallottole lo colpirono al volto, le altre bucarono la testa, il collo e una mano. Avevano mirato alla faccia, i colpi l’avevano morso da vicino. Un’ogiva del proiettile gli era rimasta addosso, tra il giubbotto e il maglione. Una pallottola gli aveva falciato il mazzo di chiavi agganciato ai pantaloni. Don Peppino si stava preparando per celebrare la prima messa. Aveva trentasei anni”.

“Sento il bisogno - dirà Giovanni Paolo II durante l’Angelus del giorno successivo - di esprimere ancora una volta il vivo dolore in me suscitato dalla notizia dell’uccisione di don Giuseppe Diana, parroco della diocesi di Aversa, colpito da spietati assassini mentre si preparava a celebrare la santa messa. Nel deplorare questo nuovo efferato crimine, vi invito a unirvi a me nella preghiera di suffragio per l’anima del generoso sacerdote, impegnato nel servizio pastorale alla sua gente. Voglia il Signore far sì che il sacrificio di questo suo ministro, evangelico chicco di grano caduto nella terra, produca frutti di piena conversione, di operosa concordia, di solidarietà e di pace”.

Al sacerdote - “parroco di un paese campano, in prima linea contro il racket e lo sfruttamento degli extracomunitari, pur consapevole di esporsi a rischi mortali, non esitava a schierarsi nella lotta alla camorra, cadendo vittima di un proditorio agguato mentre si accingeva a officiare la messa. Nobile esempio dei più alti ideali di giustizia e di solidarietà umana” - sarà tributata la medaglia d’oro al valore civile.

Per la sua uccisione, il 4 marzo 2004, la Corte di Cassazione condannerà all’ergastolo Mario Santoro e Francesco Piacenti quali coautori dell’omicidio, mentre riconoscerà come autore materiale dell’omicidio il boss Giuseppe Quadrano condannandolo a 14 anni, perché collaboratore di Giustizia. 

Decisiva sarà la testimonianza di Augusto Di Meo, amico di don Peppe. Era andato in parrocchia per fargli gli auguri per l’onomastico. Vede bene il killer Giuseppe Quadrano e non ha alcuna esitazione. Va dai carabinieri e denuncia, contribuendo in maniera determinante all’individuazione e alla condanna di mandanti ed esecutori.

“Il 19 marzo - commenterà il giorno dei funerali Don Antonio Riboldi, vescovo di Acerra - è morto un prete ma è nato un popolo”. “Don Peppino - diceva nel marzo scorso il presidente della Repubblica Sergio Mattarella - era un uomo coraggioso, un pastore esemplare, un figlio della sua terra, un eroe dei nostri tempi, che ha pagato il prezzo più alto, quello della propria vita, per aver denunciato il cancro della camorra e per aver invitato le coscienze alla ribellione. Don Diana aveva capito, nella sua esperienza quotidiana, che la criminalità organizzata è una presenza che uccide persone, distrugge speranze, alimenta la paura, semina odio e ruba il futuro dei giovani. Usava parole ‘cariche di amore’ (…) Parole chiare, decise, coraggiose”.

“Don Peppe - dirà don Ciotti - aveva il coraggio della parola e alzava la voce contro ciò che non riteneva giusto. Era inoltre capace di testimoniare anche l’altra 'Parola', quella di Dio, ed erano parole difficili perché chiamavano il male per nome”.