Il 17 giugno di 70 anni fa, al culmine di cinque giorni di scioperi e aspri scontri di piazza, ebbe fine la prima rivolta operaia scoppiata in un Paese del blocco socialista. Repressa – prima volta anche questa – dai carri armati sovietici. In quel 1953, Berlino Est è la capitale della Rdt, nata poco meno di quattro anni prima, come del resto la Rft, di cui rimane a far parte la tri-zona occidentale della vecchia capitale del Reich. Fra gli aiuti del piano Marshall, l’ordo-liberismo del governo Adenauer-Erhard e la codeterminazione sindacale imposta dai laburisti britannici, ma anche con l’imbarazzante concorso di direttori del personali non di rado riciclati fra vecchi quadri nazisti, l’Ovest sembra aver messo le ali all’economia. Ha già posto fine a ogni razionamento, cancellato il mercato nero e avviato una ripresa dei consumi che nemmeno una potenza vincitrice come la Gran Bretagna può ancora sognarsi.

Per non parlare di chi vive o ha scelto di restare nella metà socialista della Germania. Il caro-vita è divenuto insostenibile, laddove macerie e ristrettezze di ogni tipo deprimono la scena urbana. Quando ai primi del ‘52, la Sed (il Pc della Rdt) accelera la sovietizzazione di tutto il sistema, fra piani quinquennali e collettivizzazione delle campagne, persino i consumi alimentari di base entrano gravemente in crisi. Il divario con l’ovest sta divenendo insostenibile, insieme a quei milioni che in sette anni non hanno smesso di trasmigrare dall’altra parte. A poco più di un anno da quella svolta, il bilancio è talmente critico che, morto Stalin, si decide per una nuova brusca virata. Con tanto di solenne autocritica per gli errori commessi. Vuole essere l’inizio di un “nuovo corso”, con cui Mosca preme su Berlino Est per allentare la pressione del malcontento.

Ma commette nuovamente un grave errore, aumentandola sul lavoro. La produttività, con le “norme” che la determinano, deve assolutamente aumentare. Il 10 giugno il Politburo del CC decreta che in ogni singolo luogo di lavoro dovrà essere aumentata del 10% almeno; pena tagli del 30% sui salari. Da quando? Da subito; entro il 30 giugno. Sindacalisti e quadri di partito girano come trottole, fra le fabbriche, ma il malcontento è palpabile. I primi a ribellarsi sono i lavoratori edili che, sulla Stalinallee (oggi Karl-Marx-Allee), sono impegnati nella ricostruzione monumentale di quell’arteria. Dai classici del marxismo hanno appreso bene la lezione: ciò che gli si sta chiedendo in sostanza è un netto aumento del saggio di plusvalore relativo (alias, “sfruttamento”).

E a poco, ai loro occhi disincantati, vale sapere che da questo lato lo si fa per il vero bene del proletariato tutto. La clamorosa autocritica del mese prima, vero boomerang, ha infranto nella base ogni timore reverenziale verso il partito. Si comincia il 12 giugno, e nell’arco di cinque giorni, la lotta si propaga come un incendio ad altri settori e su altri temi. Come la liberazione dei detenuti politici e la richiesta di elezioni libere. Persino la riunificazione con quell’altra parte del paese, lanciato verso appariscenti opportunità che da questa parte appaiono ogni giorno di più languire irreparabilmente.

È un crescendo di manifestanti, con scontri che si fanno ogni giorno più duri, fino all’incendio di alcuni padiglioni ministeriali, intorno alla centralissima Leipzigstrasse.  Il 17 pomeriggio le autorità decidono che la misura è colma. Sulla Porta di Brandeburgo riappaiono i carri armati sovietici, da otto anni parcheggiati fra le foreste ai margini est della città. Si spara; alla fine sul selciato si conteranno 55 vittime. Ma fra la capitale e altri centri urbani le vittime appurate saranno più del doppio. A migliaia, subito dopo, verranno processati, declassati e internati. Due capi verranno fucilati; qualcun altro fatto sparire. Mentre altri 150.000, solo nei mesi successivi, fanno in tempo a fuggire ad ovest. Votano a modo loro; sì. Coi piedi. Andandosene. Alla costruzione del “vallo anti-fascista” mancano ancora otto anni.

Per il mondo comunista di allora – Italia inclusa, non solo Pci ma anche Cgil e Psi – si tratta di un vero e proprio tentativo di colpo di stato, da parte di una “marmaglia fascista orchestrata dall’Occidente”, come l’ebbe a descrivere Bertolt Brecht in una lettera al Cc della Sed, da non ascrivere certo fra le produzioni più pregiate del grande drammaturgo di Augusta. Sua la celebre, e non si capisce quanto ironica, battuta sulla necessità del governo di scegliersi, di eleggere un altro popolo. Fu così, “un fallito colpo di stato fascista”, che quei giorni verranno tramandati nelle scuole della Rdt. Un copione già rodato, che si sarebbe rivisto tre anni dopo a Poznan e a Budapest, e poi ancora a Praga, e infine a Danzica. Che vi potesse essere un grave disagio, allora come poi, economico e politico insieme, non era contemplato. Come neppure la legittimità di una istanza di autonomia e di libertà, da parte della classe rispetto ai diktat delle sue presunte organizzazioni.

Vi fu invero chi, da questa parte, ad esempio il capo della Cia a Berlino Ovest, propose di dotare i rivoltosi di armi leggere, ma non fu preso in alcuna seria considerazione. Quello scoppio aveva veramente colto tutti di sorpresa. Qualcuno pensò addirittura si stesse trattando di un regolamento di conti tra fazioni interne partito, dopo il doppio salto carpiato dell’ultimo anno e mezzo. In realtà, come si sarebbe visto anche dopo, a Ovest si era deciso di prendere Jalta molto sul serio. Azioni di destabilizzazioni, sì; ma non più di quello. Bastano le vetrine e the Voice of America. Non troppo diversamente, del resto, che a parti rovesciate. Infiltrando un proprio uomo nientemeno che ai vertici della cancelleria Brandt (affare Guillaume) – con l’enorme autogoal di far dimettere l’artefice della Ostpolitik – o supportando e coprendo la Rote Armee Fraktion (Banda Baader-Meinhof), la cui genesi può farsi risalire all’omicidio di uno studente nel ’67 a un corteo contro lo Scia’, ad opera di un poliziotto, che nel 2009 si scoprirà essere allora un agente della Stasi (affare Kurras).

Per la Rft, la data del 17 giugno sarebbe divenuta la festa nazionale dell’unità della Germania, con un memoriale e una piazza intitolata, davanti al vecchio ministero, già della Luftwaffe di Goering, sulla Wilhelmstraße, risparmiato per spirito internazionalista di corpo dalla Raf, nel 1945. A quei “5 giorni a giugno”, Stefan Heym – intellettuale e scrittore marxista, emigrato come Brecht e Biermann, dalla metà capitalista della Germania a quella socialista – avrebbe intitolato un romanzo-diario (Stampa Alternativa, 1981). Nel finale, pur rappresentando con obiettività le ragioni dei rivoltosi, Heym dichiara il suo non poter stare che dalla parte del governo socialista. Malgrado tutto. “Nonostante i suoi sbagli e difetti c’è solo questo partito, solo questa bandiera. Non lo intendo come una carta bianca per tutti i vigliacchi e i burocrati che non mancano fra noi. Lo intendo come un dovere per i compagni con cuore: fare di questo partito il loro partito”. Un dovere e un cuore che sarebbero fatalmente mancati, fino al celeberrimo epilogo del 1989.

“Il partito non doveva opporsi agli operai, né reprimere la protesta, ma poteva invece raccoglierla e riconoscersi in essa. La Germania ne avrebbe tratto un beneficio enorme” – scrisse un altro intellettuale di spicco, Robert Havemann, nella sua autobiografia Un comunista tedesco (Einaudi, 1980). “E invece tutto si risolse contro il nostro partito e contro l’internazionalismo”. Nessuno dei due sarebbe stato risparmiato dall’ostracizzazione del partito. Incriminato con accuse fasulle (tipo frode fiscale per i proventi delle pubblicazioni all’estero), Heym verrà espulso dall’associazione degli scrittori e messo ai margini di tutto. Come la maggior parte delle migliori menti della Rdt, tutte accomunate nel 1979 dalla campagna a favore del cantautore Wolf Biermann. Fautore dell’unificazione della Germania e della caduta del muro, non si precluse per questo la denuncia per le discriminazioni verso gli “Ossies” nella nuova patria unificata. E, più in generale, contro le ingiustizie del capitalismo e per i valori di un autentico socialismo; dei lavoratori, democratico e umanistico. Quelli che, sin troppo rapidamente e in malo modo, aveva visto appassire e negare in quella metà della Germania, nella quale aveva scelto di andare a vivere, e in cui aveva – come molti altri – sinceramente creduto