I musei riaprono nelle zone gialle e nei giorni feriali. Quindi a oggi in Basilicata, Campania, Molise, provincia di Trento, Sardegna e Toscana, nell’attesa e nella speranza che nelle regioni rosse e arancioni presto si riduca l’indice di contagio. Un piccolo, timido segnale di ritorno alla normalità che coinvolge un settore, quello della cultura, che era in crisi ancor prima della pandemia. Che cosa accadrà adesso? “Lo scenario che si apre è complesso – commenta Claudio Meloni, coordinatore nazionale di Funzione pubblica Cgil per il ministero per i Beni e le attività culturali e per il turismo –. In questi lunghi mesi c’è stato un ricorso massiccio alla cassa integrazione, sia per i dipendenti diretti che per i lavoratori impiegati nei servizi esternalizzati. Ora le prospettive non sono affatto rosee, e anzi in attesa della ripresa dei flussi turistici sono drammatiche”.

Secondo le stime dell’Istat, a causa della pandemia i musei statali hanno perso 78 milioni di euro, con una brusca interruzione del trend positivo degli ultimi anni che faceva prevedere circa 19 milioni di turisti in più nel 2020: un incremento dell’8 per cento rispetto al 2019, e un aumento degli introiti lordi di quasi il 13 per cento. Una situazione non molto diversa da quella del resto del mondo. L’Unesco ha calcolato che quasi il 90 per cento dei musei del pianeta, pari a oltre 85mila istituzioni, è rimasto chiuso durante la crisi e che anche quando si tornerà alla normalità, il 13 per cento potrebbe non riaprire più. Mancanza di investimenti, riduzione dei finanziamenti pubblici e privati, shock della domanda tra le cause principali. E anche con i musei aperti, le misure di distanziamento e la diminuzione del potere d’acquisto potrebbero scoraggiare i visitatori. Le conseguenze sono immediatamente intuibili: stando al Consiglio internazionale dei musei, la riduzione delle entrate dovuta al lockdown ricadrà direttamente sul personale e sui professionisti che collaborano con queste istituzioni. In un contesto come quello italiano, aggiungiamo noi, dove le esternalizzazioni hanno dominato negli ultimi decenni e le carenze di organico sono arrivate a livelli insostenibili.

“Biglietterie, bookshop, ristorazione, i cosiddetti servizi aggiuntivi, ma anche catalogazione, digitalizzazione del patrimonio, archivistica, archeologia preventiva, ricerca, tutti i settori sono stati interessati dalle esternalizzazioni a partire dagli anni Ottanta, anche ambiti che richiedono professionalità elevate, e sulla base delle ultime tendenze, si mira a sostituire sempre più il personale interno – sostiene Meloni -. Di questi lavoratori quelli maggiormente protetti hanno avuto gli ammortizzatori sociali (cassa integrazione e fondo di integrazione salariale, ndr), molti altri no”. Le guide turistiche, per esempio, che sono tipicamente a partita Iva, i lavoratori a chiamata, i collaboratori. “E poi quanti, e sono tanti,  prestano la loro opera come volontari, un forma camuffata di lavoro, un vero esercito di persone senza tutele – aggiunge Danilo Lelli, di Filcams Cgil -. Da tempo chiediamo la stabilizzazione di queste figure, e anche quando è arrivata non è stata nei termini che avevamo indicato noi. Il risultato? In molti sono rimasti senza ristori”.

E quando si parla di organici, emergono le contraddizioni di sempre: secondo il sindacato le carenze prima della pandemia erano del 20 per cento, a causa del blocco decennale del turn over, oggi siamo a meno 30 per cento. Con l’approvazione della legge di Stabilità verranno chiamati mille collaboratori, il primo bando della direzione generale dell’archeologia è già uscito, aperto a partite Iva per ruoli direttivi. Mentre per i ruoli interni al Ministero non è prevista neppure un’assunzione.    

“Questo è un sistema destinato sempre a più a decadere, dove imperversano logiche che colpiscono i lavoratori, di non riconoscimento di diritti salariali e contrattuali – dice Meloni di Fp -. Si fa sempre più ricorso alle collaborazioni esterne per coprire i buchi di organico e non c’è un vero piano occupazionale che si ponga l’obiettivo di recuperare il blocco del turn over”. “Eppure stiamo parlando di un settore che nella ripartenza ha un valore strategico, la cultura e il turismo sono un asset fondamentale – rincara Danilo Lelli, di Filcams Cgil -. Il Recovery Plan e i progetti di sviluppo possono essere un’occasione. Da parte dei lavoratori c’è la spinta e il desiderio a riaprire, soprattutto nelle aree archeologiche, Pompei, Ercolano, Villa dei Quintili, Villa Adriana, solo per citarne alcune, dove le attività si svolgono all’aperto quindi con minori rischi di contagio”.

Perché poi la riapertura pone anche la questione della sicurezza. A inizio pandemia sono stati definiti e firmati tutti protocolli, adattati alle diverse realtà e situazioni. Ma le condizioni di sicurezza non sono garantite allo stesso modo dappertutto – precisa Lilith Zulli, di Funzione pubblica Roma e Lazio -. Ci sono posti piccoli, magari in periferia, dove la sicurezza non è garantita. Senza contare che quando si riapre bisogna assicurare misure adeguate anti-Covid all’accoglienza, al botteghino, nelle sale, quindi più personale in servizio. E a oggi siamo sotto di 5mila unità, destinati a diminuire anche in vista di prossimi pensionamenti”.