Le riaperture di cinema, teatri e set, dal 15 giugno, dovevano segnare la ripartenza. E invece, solo  il 30% circa è tornato in scena o dietro le quinte. Se si pensa che i professionisti che lavorano nel settore dello spettacolo sono circa 400mila, i conti sono presto fatti: sono oltre 300mila le persone che si sono fermate. La recrudescenza del virus, nelle ultime settimane, non fa ben sperare per il destino di cinema, teatri, concerti ed eventi dal vivo.

Dal palco alla realtà, i fatti dicono che la ripartenza ha interessato un numero ristretto di imprese culturali, artisti e maestranze. A tornare in scena sono stati soprattutto i soliti noti. A Roma, capitale anche dell’offerta culturale, più del 50% delle imprese (secondo un’indagine di Confcommercio) non ha ricevuto alcun tipo di sostegno statale; nel 49,5% dei casi hanno già dovuto ridurre i collaboratori e più della metà pensa che dopo la fine del blocco dovrà cominciare a licenziare. “Ma come faremo a riacchiappare gli spettatori, a riportarli da noi?” Si chiede Giada Lorusso, attrice, che per formazione viene dal Piccolo Teatro di Milano e vive e lavora a Roma. Il pubblico, a teatro e al cinema, ci va sempre meno (oltre il 20% dei romani non ci è mai più andato e quasi il 40% molto meno di prima). Ma senza pubblico lo spettacolo non ha senso. “Il lockdown ha puntato il dito contro chi è inutile – osserva con amarezza Cinzia Sità, danzatrice e cofondatrice del progetto Sharing in Roma – a che serviamo noi artisti nella società?”

Prima del Covid, per lavorare nello spettacolo ci si trovava spesso a dover accettare di farlo sottopagati,  o senza che venissero rispettati i contratti nazionali, per la paura di restare fuori dal giro. Oggi, i lavoratori del settore hanno assunto una consapevolezza nuova di categoria e tentato di unire le forze per cambiare il paradigma culturale. Sono nate realtà come Attrici Attori Uniti, Facciamo la conta, Mujeres nel cinema e nel teatro. Molti lavoratori si sono iscritti al sindacato. Tuttavia incombono ancora, minacciose, le nubi di un gioco al ribasso, il ricatto di una proposta di lavoro a una paga sempre inferiore.

Il pubblico pensa forse che tutta la nostra categoria sia Robert De Niro. Ma le nostre paghe sono quelle indicate dal contratto nazionale. Noi siamo lavoratori come tutti gli altri”. Fino a una ventina di anni fa, chi entrava nel dorato mondo dello showbiz lo faceva da allievo attore retribuito, o con la paga minima. Oggi chi si diploma fa fatica a lavorare e, a parte le grandi produzioni, una compagnia privata di venti persone è impensabile. Nell’epoca dei monologhi e dei nomi in cartellone, la famosa gavetta è un curriculum sempre più lungo di spettacoli gratuiti, o un ruolo da factotum che porta le professioni dello spettacolo a scomparire.

“Oggi il direttore di scena lo si fa fare a chiunque per risparmiare – spiega Salvatore Ciulla, che questo mestiere lo fa da trentatré anni – una paga per tre mansioni”. Manca una riconoscimento giuridico delle professioni in ambito artistico. Giace fermo in parlamento il disegno di legge sulle qualifiche e l’istituzione del registro nazionale, che aiuterebbe a combattere lavoro nero e mancanza di sicurezza nei teatri. Le maestranze lavorano sotto carichi sospesi per dodici, diciotto ore, in strutture teatrali che non sempre rispettano le regolamentazioni. Ma i controlli degli ispettori sono come Godot, tardano ad arrivare.

Il 22 ottobre scorso, Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom hanno chiesto ad Agis (che riunisce le imprese dello spettacolo dal vivo) di firmare un protocollo nazionale per la sicurezza, sulla falsariga di quello già sottoscritto per la danza. Fino a quel momento, la scelta di Agis era stata quella di dotarsi nei singoli teatri di protocolli definiti con le rappresentanze territoriali. Ma nei mesi della cauta ripartenza, le tutele hanno riguardato solo le imprese strutturate, mentre molti lavoratori atipici sono stati costretti a firmare autocertificazioni o pagarsi i test.

Nell’ambito dei concerti live, dove il Fus non arriva neanche ad alti livelli, la situazione non è migliore. Gli enti che percepiscono il fondo unico per lo spettacolo hanno preso il finanziamento anche nel periodo di chiusura per la pandemia. Ma queste cifre non sono servite per sostenere artisti e maestranze rimasti senza reddito e privati del futuro.