Anche le pensionate dello Spi Cgil delle Marche, con la loro memoria storica e il loro ruolo di protagoniste assolute della battaglia per la conquista del diritto all'aborto, esprimono grande preoccupazione per i continui attacchi ai diritti di libertà delle donne. "Ricordiamo - scrivono in un comunicato - che sono state le molte donne, oggi pensionate, che con le loro lotte sono riuscite a conquistare leggi importanti per allargare i diritti per l’emancipazione e l’autodeterminazione della donna. La legge sul divorzio nel 1970, il nuovo diritto di famiglia nel 1975, la legge istitutiva dei consultori familiari del 1975, la legge 194 sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza, la legge che riconosce la violenza sessuale come reato contro la persona (solo a titolo di esempio) testimoniano come le donne di quella generazione abbiano difeso le libertà, i diritti e con essi la democrazia del nostro paese, rendendolo più rispettoso di tutte le sensibilità, ma laico e inclusivo, che si fa carico anche dei drammi che le persone si trovano a vivere".

Forti della loro storia, respingono qualunque tentativo di ostacolare queste libertà, a partire dalla difesa della legge 194 sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza e faranno sentire la loro voce anche con la mobilitazione se venissero presi provvedimenti restrittivi sull’applicazione della RU 486 meglio conosciuta come pillola abortiva. "Ci mobiliteremo - scrivono - a fianco delle più giovani perché la Regione desista dall’intendimento di disattendere le linee guida del Ministero della Salute".

Per le donne dello Spi Cgil servono, al contrario, interventi che rendano effettiva l’applicazione della Legge 194/78 ancora ampiamente elusa per l’obiezione di coscienza di molti medici e operatori sanitari, costringendo molte donne ad andare fuori regione o addirittura a ricorrere all’aborto clandestino. Nelle Marche, infatti, gli obiettori di coscienza rappresentano quasi il 70% dei ginecologi che svolgono la loro attività nelle strutture ospedaliere, superando quella media nazionale del 69% e il 30% sui Consultori.

Contribuisce ad aggravare questa situazione, la riduzione dei medici ginecologi e degli operatori previsti dalla legge presenti nei Consultori pubblici diventati poco più che ambulatori e costretti ad operare in condizioni emergenziali rendendo sempre più difficile l’attività di prevenzione e di promozione della salute.

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