Il dibattito intorno alle tragedie e ai cambiamenti cui ci sta obbligando il confronto con la crisi sanitaria da Covid 19 ha assunto per le città un carattere particolare. Tra i timori di fuga dai centri abitati e le ipotesi di sociologi quali Andrés Rodríguez-Pose e Michael Storper secondo i quali le città continueranno a “vincere”, si sono sviluppate le “strategie di adattamento” delle capitali e delle grandi aree urbane che, in tutto il mondo, hanno iniziato a riflettere con più convinzione su spazi, funzioni, mobilità.

Così è stato per Milano, che ha affinato l’obiettivo della città a 15 minuti, tendenza che in realtà pre-esisteva, poiché sul tema della città policentrica il lavoro amministrativo e politico è cominciato molto prima dell’emergenza sanitaria, ma ha trovato con il Covid un’accelerazione dovuta anche a necessità contingenti di breve e medio termine.

Il processo di definizione degli interventi è stato partecipativo. Nel maggio 2020, all’uscita dal primo lockdown, la Giunta milanese scelse di sottoporre alla città un vero e proprio documento strategico, chiamato Milano 2020, strategia di adattamento, ricevendo in pochi mesi oltre 3.000 contributi da parte di cittadini, associazioni, gruppi di interesse, organizzazioni sindacali e datoriali.

L’obiettivo era dare una risposta di tipo adattivo alla situazione di emergenza e il documento ha lavorato fondamentalmente su due dimensioni, lo spazio e il tempo. Non a caso la prima sfida è stata quella di attuare una desincronizzazione degli orari della città, in un grande lavoro di confronto e di mediazione. Dal lato dello spazio si è agito invece prontamente sulla messa a disposizione di luoghi all’aperto dove trasferire funzioni che eravamo abituati a vivere al chiuso: dalla delibera per facilitare la diffusione di “tavolini” e spazi commerciali all’aperto, all’urbanesimo tattico per restituire alla fruibilità collettiva luoghi dimenticati, dai mercati ai parchi, la città si è accesa per quartiere. Più di lungo periodo il ragionamento sui trasporti pubblici, sulla mobilità attiva, con il grande investimento anche politico sulle ciclabili, fino a tutta la dimensione di quello che abbiamo chiamato il lavoro di prossimità.

Partivamo da una situazione di vantaggio, poiché negli ultimi due mandati l’amministrazione di Milano ha investito moltissimo nello sviluppo culturale e organizzativo del lavoro agile. Sebbene il lavoro “confinato” del periodo pandemico avesse caratteristiche del tutto differenti da quello che avevamo sperimentato in precedenza, l’accelerazione imposta a enti pubblici e imprese dal lato organizzativo e tecnologico ha fatto emergere opportunità e criticità che ci hanno convinto a fare un passo in più e a parlare di near working.

Continuando a ragionare sul binomio tempo-spazio, abbiamo provato a immaginare il near working come declinazione spaziale del lavoro agile, in cui il centro non è solo l’organizzazione aziendale, la sfida tecnologia e nemmeno solo il benessere di lavoratrici e lavoratori, tutti elementi chiave che ci hanno guidato in questi anni e che continuano ad essere parte fondamentale del ragionamento. Con il near working si introduce però un cambiamento di prospettiva, che vede al centro gli spazi della città, con le loro differenti funzioni, sempre meno statiche e più ibride, in rapporto tra loro, tra dentro e fuori, tra centro urbano e quartieri, con le aree metropolitane e anche con le aree interne. Non a caso abbiamo inaugurato questa sperimentazione con una delibera sui tempi, perché attiene proprio al modo di concepire e accompagnare i ritmi di vita attraverso gli spazi che accendono le nostre giornate, il nostro lavoro, le nostre necessità, le nostre relazioni.

Per questo il near working è strettamente correlato all’idea di rigenerazione urbana, con al centro i quartieri. Il near working completa e rende più sicura e ricca la parabola dell’impresa di prossimità e il valore sociale, oltre che economico, degli esercizi di vicinato, artigiani e commerciali, la nuova manifattura, ecologica e sostenibile, i servizi pubblici e privati, il welfare territoriale. Oggi l’ibridazione degli spazi è un valore aggiunto, che si regge sulla sostenibilità dei servizi che vanno a convivere, sulla loro capacità di migliorarsi, grazie alla tecnologia e allo sforzo di innovazione sociale di chi li anima.

Una nuova manifattura si sta insediando nei quartieri, che non crea pericoli per la salute né rumori eccessivi, che cresce con la creatività dei più giovani e il recupero dei saperi tradizionali. Con essa riprende vita il commercio di vicinato, consapevole del proprio ruolo nel creare ricchezza e relazioni, nel rendere vive e sicure le strade. Accanto fioriscono i servizi, pubblici e privati.

Non è però scontato che si inneschi questa catena positiva, in alcune zone spazi degradati, collegamenti insufficienti, abbandono, rappresentano un rischio troppo grande anche per chi volesse investire sul territorio. Tempi di qualità richiedono spazi di qualità, vivibili, identitari, in grado di creare legami funzionali ed emotivi tra le piazze, le vie e i cittadini che le vivono. Il near working atterra nei luoghi di vita e contratta i propri spazi, senza risposte univoche o preconfezionate. Noi, come amministrazione, per i nostri quasi 15 mila dipendenti, abbiamo chiamato i coworking della città a convenzionarsi perché possano essere completamenti dello spazio pubblico comunale, stiamo realizzando accordi con le aziende per ottimizzare le sedi private e renderle fruibili anche dai dipendenti pubblici, ragioniamo con le società partecipate e riorganizziamo le sedi decentrate. Accordi tra pubblico e privato che possono servire da modello anche per accordi tra privati.

L’idea è che ognuno, compatibilmente con le funzioni del lavoro, possa svolgere almeno parte delle proprie attività in prossimità degli spazi di vita, possibilmente non in casa, dove gli ambienti non sempre sono indicati e dove la sovrapposizione tra vita e lavoro non diventa più risparmio di tempo ma intromissione, per sé e per i propri cari. Torna cardine il concetto di conciliazione vita lavoro, aggiornato e reso attuale dalle trasformazioni in atto eppure sempre stimolato dalla riflessione sul femminile e in particolare sulle donne lavoratrici come collettività su cui perduranti discriminazioni hanno inciso una capacità di innovazione inedita il cui portato ha valore per la società intera.

Nell’ultimo anno sulla stampa e in diversi approfondimenti, così come dai dati Istat di gennaio 2021, è emerso il tema di come la crisi occupazionale e sociale generata da Covid 19 sia particolarmente aggressiva nei confronti delle donne lavoratrici. Ad esse occorre dare risposte con interventi di diverso tipo, con aiuti e premialità e con lo sforzo di abbattere tutte quelle abitudini consolidate che negano di fatto la parità di accesso al lavoro e la mobilità sociale delle donne, che sviliscono la condivisione dei ruoli di cura e che favoriscono una cultura della violenza.

All’interno dell’amministrazione, promuovendo occasioni di contaminazione e di apertura verso l’esterno, abbiamo sviluppato programmi per favorire la genitorialità condivisa, per incidere sul soffitto di cristallo con una formazione diretta a uomini e donne, insistendo sulla responsabilità dei ruoli apicali, non rinunciando a indicare nel corretto uso del linguaggio di genere un volano di riflessione e di scardinamento.

Cristina Tajani, assessora Politiche del Lavoro Comune di Milano