L'Unione si pone per la prima volta il problema di introdurre una regolazione del grande mondo del digitale. Positivo che si parli della difesa dei diritti dei consumatori, ma il lavoro non può rimanere fuori dalle norme. Gli algoritmi determinano prima di tutto le prestazioni lavorative. Il modello deve essere anche oggetto di contrattazione
L’Europa è rimasta provata dalla pandemia e dalla dimostrazione che molti anni di politiche fondate sull’intangibilità dei Trattati e sulla supremazia delle regole di bilancio l’hanno resa fragile, diseguale, debole rispetto alle prospettive di riorganizzazione delle economie del mondo. L’Europa ha reagito, introducendo per la prima volta con un piano di investimenti per il rilancio- Ngue, Next Generation Ue - fondato sul debito comune.
In Italia, spesso, si discute come se il Ngue fosse la semplice somma di piani nazionali: condizionati alcuni criteri, ma ognuno per sé. L’ambizione, per i Paesi, ed anche per il movimento sindacale, dovrebbe invece essere più alta: occorre una significativa dimensione sovranazionale - senza pretendere la pur auspicabile Europa federale - nella convinzione che un ritorno ai confini nazionali non dia le risposte necessarie. Anche per il lavoro, chiudersi nei confini non è una buona soluzione, dato che molti dei processi in atto si confrontano con il potere internazionale di condizionamento dei “nuovi big”, da big tech a big pharma, che rappresentano il capitalismo dell’estrazione e della sorveglianza e quindi entrano in collisione con i diritti del lavoro e con i valori europei e democratici. In questo quadro va letta la necessità che il Next Generation Ue, pur non rinunciando ai criteri su digitalizzazione e ambiente, diventi anche l’occasione per riprendere una politica industriale dell’Unione europea. Occorre, per esempio, proporre una diversa politica della salute e lavorare per acquisire una capacità produttiva europea autonoma a livello sanitario, non fermandosi alle regole della libera concorrenza e del mercato, ma adottando invece una strategia basata sulla ricerca e sulla progettazione di tecnologie, dagli strumenti all’intelligenza artificiale. Farlo significherebbe compiere un altro passo avanti; significherebbe scegliere la strada dell’investimento pubblico - europeo e nazionale - e non affidarsi più alle scelte delle imprese limitandosi a finanziarle più o meno. L’esperienza dei vaccini dovrebbe aver insegnato qualcosa. Questa è la sfida, difficile, che tutti i paesi europei dovranno proporsi, anche nell’attuazione dei piani nazionali. Le scelte di azione e legislazione europea che stiamo vedendo, restano però piene di contraddizioni. A importanti innovazioni come la sospensione del Patto di stabilità si contrappongono ritorni al passato: la strategia sulle migrazioni, come quella sul commercio internazionale, sono in piena continuità con le politiche precedenti, senza aver nulla imparato dai mesi che abbiamo passato.
L'obiettivo esplicito delle norme varate dalla Ue è quello di ridisegnare e bilanciare le dinamiche concorrenziali dell'ecosistema digitale, prendendo atto del “potere economico” delle grandi piattaforme. E' il primo passo verso un quadro legislativo "sistemico"
Un altro segnale positivo viene invece dalle proposte di direttiva sui salari minimi adeguati e la contrattazione collettiva, sulla trasparenza e il divario salariale di genere e dall’annunciata direttiva sul lavoro nelle piattaforme. L’impegno di traduzione dei principi del pilastro sociale non può certo dirsi assolto, così come molto c’è da fare per rilanciare il dialogo sociale. Con queste proposte però si affrontano temi, che pur non essendo certo esaustivi dell’attività legislativa europea necessaria, potranno essere utili da conoscere e valutare nella nostra politica contrattuale: il dumping tra lavoratori europei, il gender gap, il lavoro nelle piattaforme.
La commissione ha presentato il Digital act, composto da due proposte di regolamento: il Dsa (servizi), e il Dma (mercato), a cui si aggiunge un’ altra proposta di regolamento, ossia il Dga (governance dei dati). I tre testi hanno l’ambizione, ormai un classico europeo, di assicurare un corretto funzionamento del mercato interno. L’obiettivo è quello di avere regole univoche e cogenti in tutta l’Europa, con obblighi specifici per i grandi player, in modo da proteggere la concorrenza leale e le piccole medie imprese, e di intervenire sui rischi della insicurezza online dei cittadini e per la protezione dei loro diritti, regolando le responsabilità dei servizi digitali, anche se non legalmente basati in Europa.
Ci appare però incongruente introdurre vincoli di “mercato equo, a concorrenza leale”, e quindi misurarsi con i meccanismi “automatici” basati su algoritmi e intelligenza artificiale, guardando solo alla produzione di contenuti, ai servizi, e non a come quegli stessi meccanismi automatici regolino anche la prestazione lavorativa. Trasparenza, controllabilità, accessibilità sono però condizioni necessarie anche per la contrattazione: le soluzioni proposte nei regolamenti possono quindi comunque rappresentare un punto di riferimento.
Su questo potrebbero convergere gli interessi del legislatore, dei cittadini utenti-consumatori, e dei lavoratori. Non solo: proprio l’idea di regolamenti normativi permetterebbe di introdurre certezze, sgomberando il campo da volontarietà, autocertificazioni Iso, standard di ogni genere e tipo, codici, ed altre forme molto in voga per superare la cogenza e l’esigibilità delle norme. La regolamentazione sull’accessibilità e conoscenza dei sistemi, destinata alla protezione dei diritti fondamentali di cittadinanza, se ben esercitata, potrebbe essere mutuata per determinare quella contrattazione dell’algoritmo necessaria per qualificare il lavoro ed estendere i diritti. Bisogna però sottolineare che l’attenzione alla trasparenza, alla privacy ed alla protezione dei dati è importante, ma non sufficiente: vi è la necessità di vigilare sulla non discriminazione, sull’eguaglianza di genere, sulle libertà di pensiero e di associazione.
Dopo il "ground zero" del gennaio 2021 con il blocco di Trump sui social media, ora si confrontano due modelli, quello degli Usa che lascia spazio all'azione (e autoregolamentazione) delle piattaforme e quello dell'Europa che ha scelto invece la via della regolamentazione con il Digital Service Act. L'auspicio è che si realizzi almeno un capitalismo digitale "mite"
Sappiamo infatti ormai abbastanza bene che la tecnologia non è in partenza esente da bias: essa infatti è il prodotto di ciò che le viene “insegnato”. Ad esempio, se le tecnologie riproducono i meccanismi di discriminazione patriarcali, questo avrà degli effetti anche nel caso di un algoritmo progettato per il massimo sfruttamento del tempo lavoro, che avrà un impatto diverso sui singoli lavoratori e lavoratrici, che sono uomini e donne e non macchine, e portano con sé tutte le loro diversità. Infine, se l’Europa si propone non solo di regolare l’esistente, ma di attrezzarsi per l’onda crescente dei processi di digitalizzazione, e per farlo intende costruire cooperazione transfrontaliera per moltiplicare i dati - vera ricchezza e materia prima - a disposizione per i processi digitali, deve farlo utilizzando tali dati nel rispetto dei diritti fondamentali, tra cui primeggia la protezione dei dati pubblici inerenti i diritti fondamentali delle persone, dati non privatizzabili. La discussione sui regolamenti si è appena avviata, questo ci dà tempo per vigilare sui punti critici e far sì che rispondano agli obiettivi fin qui elencati e per prefigurare come dovrà esserne la trasposizione nel nostro ordinamento, quali regole e autorità di controllo introdurre.