Serve un ruolo economico dello Stato più importante e incisivo. Uno Stato imprenditore e innovatore, per usare un'ormai nota ma mai abusata definizione.
Attraverso il Piano nazionale di ripresa e resilienza, in Italia come negli altri paesi europei, il programma Next Generation Eu dovrebbe rappresentare lo strumento principale per contrastare gli effetti della crisi economica e sociale scaturita dall’emergenza pandemica e, al contempo, definire un nuovo modello sociale e di sviluppo. Il nuovo corso europeo, già delineato molto prima dell’irruzione dell’epidemia Covid-19, a partire dal Green Deal Eu, ha posto le basi per misurarsi con le grandi sfide globali a cui sono chiamati gli Stati membri e, soprattutto, i paesi mediterranei e più “periferici” dell’Unione europea che, sotto i colpi dell’austerità e della svalutazione competitiva, si erano allontanati dall’idea di crescita “intelligente, inclusiva e sostenibile” promossa dalle cosiddette agende sovranazionali.
La rinnovata ricerca della convergenza tra le economie europee si fonda sulla necessità e, dunque, l’obiettivo di cogliere le grandi transizioni che attraversano il Pianeta, a cominciare dal contrasto ai cambiamenti climatici e dalla trasformazione digitale. Non a caso Ngeu – così come il nuovo Quadro finanziario pluriennale 2021-2027 – pongono dei vincoli all’utilizzo delle ingenti risorse messe a disposizione: i Pnrr devono destinare almeno il 20 per cento a progetti digit (ovvero con investimenti ad alta vocazione tecnologica e digitale) e almeno il 37 per cento dei progetti a vocazione green. Va subito chiarito che la restante quota di risorse che può essere utilizzata per progetti di diversa natura non deve contraddire tali vincoli e deve risultare comunque coerente con il più generale progetto europeo di rafforzamento della domanda, ridefinizione delle filiere produttive e accorciamento intra-continentale delle catene del valore (anche alla luce della pandemia). Il che significa anche maggiore competitività sul terreno 4.0 rispetto alle major Usa e asiatiche, nonché una maggiore indipendenza energetica in corrispondenza di un abbattimento delle emissioni CO2, essendo il mercato europeo potenzialmente il più grande e il più inquinante del mondo.
Di sicuro, esiste una stretta correlazione fra le cosiddette key enable technologies (tecnologie abilitanti) e lo sviluppo sostenibile. Tanto più se quest’ultimo viene inteso – come suggerito dall’Onu – in tre dimensioni: economica, sociale e ambientale. Le misure volte a promuovere strumenti, dispositivi e risorse interconnesse tra loro e con la rete, infatti, possono permettere alle imprese e alla Pa di migliorare tutti i processi, creando maggiore valore aggiunto e, attraverso il governo pubblico dell’innovazione e la contrattazione collettiva, anche nuova occupazione e il miglioramento delle condizioni di lavoro.
Nel progettare la ripresa del Paese, bisogna ristabilire un ordine di priorità che abbia al centro le persone, operando scelte politiche chiare alla cui realizzazione le implementazioni tecnologiche offriranno supporto
In questa prospettiva l’Italia si può candidare ad assumere un nuovo ruolo nel panorama industriale europeo ridando forma e struttura al proprio sistema produttivo a vantaggio di una riqualificazione e ricomposizione delle attività economiche ad alta intensità tecnologica (nella manifattura) e di conoscenza (nei servizi), rimodulando in questo modo la bolletta energetica e rilanciando settori del Made in Italy le cui quote di commercio internazionale si assottigliano progressivamente. Anche per questo appare strategico ripartire dal perimetro delle aree di crisi industriale, complessa e non, per la riconversione verde e digitale dei principali siti produttivi nazionali.
Tutto questo però non basta. Per obiettivi così ambiziosi, pur con risorse a disposizione mai viste prima, occorre delineare un piano chiaro di nuove politiche industriali e di sviluppo, rafforzando l’intervento pubblico in economia e, più ingenerale, il sistema pubblico. In tal senso appare indispensabile pianificare investimenti, infrastrutture e innovazione in direzione della ricerca e delle nuove produzioni, dei sistemi energetici, del welfare, dell’istruzione e della formazione. Sono sfide che attraversano tutto il Paese e soprattutto tutto il lavoro: la sua tutela, la sua qualità, la sua creazione.
Come noto, l’Italia è potenzialmente il secondo beneficiario delle risorse straordinarie previste dall’Europa. In attesa di modifiche del nuovo Governo, il Pnrr redatto dal precedente Consiglio dei ministri resta il riferimento per le istituzioni nazionali ed europee. Ma cosa c’è nel Pnrr del 12 gennaio scorso?
I rischi per la sicurezza informatica impattano anche sul progresso economico e sociale di un Paese. La creazione di una struttura ad hoc, con la direzione nelle mani dell'attore pubblico, è ormai improcrastinabile, come mostrano le esperienze di Francia, Germania, Inghilterra e Olanda
Lo schema adottato segue le linee guida per la definizione del Pnrr elaborate dal Ciae e già discusse in Parlamento con sei missioni, 16 cluster che raggruppano i progetti e 48 linee di intervento. Eppure, il piano presenta ancora significative mancanze e rilevanti punti di inadeguatezza, proprio sul lavoro e sulla politica industriale, benché i tre assi strategici individuati siano (i) digitalizzazione e innovazione, (ii) transizione ecologica e (iii) e inclusione sociale. Il Pnrr si caratterizza per la mancanza della governance (partecipata), eccessiva frammentazione, assenza di target e traguardi intermedi, parzialità della valutazione di impatto su economia e occupazione.
Il Pnrr italiano si fonda su tre diverse tipologie di risorse economiche: le risorse europee derivanti da Next generation Eu, le risorse nazionali e le risorse della nuova programmazione comunitaria 202-2027 per un totale di 310 miliardi di euro. L’intento esplicito, però, è di non impegnare tutte le risorse su nuovi progetti, bensì il 30 per cento coprirà le spese per spesa (in conto capitale) già programmate. L'effetto espansivo del programma Ngeu sull'economia italiana sarebbe pressoché uniformemente distribuito nell’arco del periodo 2021-2026, raggiungendo oltre un punto percentuale di Pil aggiuntivo entro i primi tre anni e un incremento ulteriore di simile entità nel successivo triennio. Nel complesso, dunque, al termine del periodo di programmazione, l’utilizzo delle risorse innalzerebbe il Pil dell’Italia di circa 2,5/3,0 punti percentuali. Poca cosa considerando il potenziale espansivo di tutte quelle risorse.
Da cosa dipende? Se si considera che i moltiplicatori del Pil e dell’occupazione più elevati sono proprio quelle della spesa pubblica per investimenti fissi e innovazione, appare evidente che nel Pnrr licenziato il 12 gennaio 2021 non vi siano sufficienti progetti in tale direzione o, detta in altro modo, siano troppo disperse le risorse che permettono a Stato e mercato di accumulare, innovazione e crescere.
Alla missione 1, “Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura”, vengono destinate il 21 per cento delle risorse complessive (appena più del vincolo europeo), da dispiegare principalmente in tre ambiti: modernizzazione della Pa; competitività del sistema produttivo; turismo e cultura. Ancorché riconoscendo la validità dello schema progettuale, appare inefficace l’approccio, poiché non muta processi e risorse – a partire da quelle umane – della macchina pubblica, non prevede alcuna strategia di partecipazione statale o iniezione di capitale pubblico per la definizione dei settori strategici ed essenziali dell’economia e non prende in carico il problema della creazione diretta di attività economiche e occupazione nei settori dei beni comuni, non esposti alla concorrenza internazionale o agli shock tecnologici, come turismo e cultura.
Per un salto di qualità, di progresso tecnologico e di sostenibilità del sistema-paese, occorre ripensare buone parte di quel Pnrr con un più importante e incisivo ruolo economico dello Stato. Uno Stato imprenditore/innovatore, per usare un’ormai nota ma mai abusata definizione.