Gli interventi che mi hanno preceduto, e che in larga parte condivido, mi permettono di concentrarmi di più sulle questioni su cui sono in grado di dare un contributo, che non necessariamente sono le più importanti in assoluto. A questo proposito segnalo tra gli interventi realizzati finora quelli di Dario Guarascio e di Piero De Chiara.

Il primo riguarda la necessità di ricostruire le catene del valore aggiunto della produzione dei servizi e dei relativi apparati. Con la diffusione del Leasing e del noleggio a lungo termine, dell’intrattenimento a pagamento o della domotica anche le vetture, i televisori o i frigoriferi diventano apparati di un servizio. In particolare tra i diversi settori è rilevante la battaglia sui servizi sanitari e sulla sanità pubblica. A questo riguardo cito un solo dato: la classifica Fortune 2022 delle 10 aziende private con il maggiore fatturato negli Usa segnala la presenza di ben quattro aziende del settore sanitario a fronte di una nell’energia e tre big tech. A proposito delle aziende del big tech va detto che, forse, i 200mila licenziamenti in corso in America non sono solo la conseguenza di una crescita ipertrofica durante la pandemia, ma di un assestamento e di una relativa maturità del settore. D’altronde il crescente investimento delle aziende stesse in settori diversi dei servizi, compreso quello sanitario citato, è un ulteriore segnale.

Il secondo è l’approfondimento sui mutamenti nell’organizzazione del lavoro. Si è scritto e detto molto sull’impatto delle tecnologie digitali sull’organizzazione del lavoro e, quindi, sulle condizioni di lavoro e sui diritti dei lavoratori. È abbastanza diffusa l’analisi che il modello fondato su fabbriche e uffici è ridefinito nei diversi settori sulla base della tensione tra la spinta centrifuga verso il lavoro su domanda individualizzato e quella centripeta che concentra innovazione e potenza di calcolo al centro dell’organizzazione di impresa e favorisce ulteriormente la concentrazione su poche imprese globali. Ma finora sono pochi, e soprattutto dispersi, i tentativi di introdurre regole legislative e contrattuali. Le difficoltà si concentrano sulla frammentazione e sulla apparente scientificità dell’organizzazione del lavoro risultante. Persino la ricostruzione delle reali controparti di una piattaforma rivendicativa diventa a volte molto difficile. Una pista di lavoro era già presente nell’intervento che mi ha preceduto di Andrea Allamprese. (Mi permetto di segnalare il libro di A. Supiot: La sovranità del limite. Giustizia, lavoro e ambiente nell'orizzonte della mondializzazione da lui curato). Penso in particolare ai suoi riferimenti alla legislazione della comunità europea sui temi che stiamo trattando, iniziando dalla direttiva sui lavoratori digitali. Soprattutto sottolineando il fine principale della direttiva in questione: l’uguaglianza dei diritti tra i lavoratori a prescindere dall’inquadramento contrattuale e dallo specifico rapporto di lavoro. Per non allungare mi permetto di far riferimento a un mio articolo sul problema (consultabile QUI). 

Concludo ricordando le vicende Olivetti e Telecom. Oggi i riflettori sindacali sono puntati sulla Tim. Mi permetto di dire che l’opposizione a ipotesi di spezzatino aziendale è certamente comprensibile, ma rischia come avvenuto nelle vertenze citate di concentrare l’attenzione sull’autarchia e sui campioni nazionali. Concentrazione che ha portato a giustificare per la Telecom l’intervento dei capitani coraggiosi con le conseguenze negative fin troppo note. D’altronde la stessa discussione negativa – tra l’altro con un forte dispendio di denaro pubblico - c’è stata per altre vicende aziendali, ricordo l’Alitalia e l’Italsider. Mi sembra più forte l’ipotesi proposta poco fa di Piero De Chiara. Certo può, forse, essere utile anche un passaggio di rinazionalizzazione, ma nel percorso da lui delineato.

Carmelo Caravella fa parte della Consulta industriale Cgil, direttivo Crs