Il sindacato può avere un ruolo fondamentale per indirizzare gli effetti della transizione ecologica e digitale, per valorizzare le loro conseguenze sulla creazione di nuova occupazione e limitarne l’impatto sulla distruzione dei posti di lavoro. Senza considerare le implicazioni sociali e democratiche dell’esercizio di questa funzione. Fin qui, tutto bene. La vera sfida, tuttavia, è quella di trasformare una proposizione di natura generale in strategia di azione. Per questo, occorre partire da alcuni elementi di fatto. Eccoli, in estrema sintesi.

Primo. Le tecnologie digitali hanno un carattere prevalentemente intangibile, sono trasversali ai diversi processi produttivi, si accompagnano a un'organizzazione del lavoro più 'orizzontale' che gerarchica, e chiamano in causa competenze 'miste', ovvero non solo conoscenze tecniche e specialistiche ma anche, e sempre più spesso, competenze di tipo cognitive e relazionale, le cosiddette soft skills. Quando l’impresa investe in tecnologie digitali tende ad attivarsi, quindi, un processo di trasformazione che coinvolge in modo trasversale molti aspetti della vita aziendale. Questo cambiamento ruota intorno alle competenze e alla professionalità dei lavoratori, alla loro capacità d'interagire e di scambiare conoscenza a vari livelli della organizzazione aziendale. I lavoratori potranno plasmare in senso positivo l’impatto delle nuove tecnologhe nella misura in cui riusciranno a coordinarsi tra loro, attraverso la contrattazione e l’investimento in professionalità collettive.

Secondo. Il ragionamento si fa più complicato se consideriamo l’effettiva diffusione di Industria 4.0 nel nostro Paese. Meno del 30% delle imprese italiane adotta almeno una tecnologia digitale e gran parte di questa percentuale è spiegata da investimenti in sicurezza informatica. Se guardiamo l’applicazione della robotica (3%), i big data (4%), la realtà aumentata (2%) o Internet delle cose (6%), la situazione è ben diversa e ci racconta di un sistema imprenditoriale che fatica ad avviarsi lungo questa grande trasformazione. Naturalmente si tratta di medie nazionali che variano significativamente in base al settore di attività e alla dimensione delle aziende; per fare un esempio, l’adozione di tecnologie digitali riguarda il 60% delle imprese con oltre 50 dipendenti, e circa il 45% di quelle operanti nella manifattura. Tuttavia, questa eterogeneità non può cambiare la sostanza profonda delle cose: la gran parte del tessuto imprenditoriale italiano è fatto di aziende di piccole dimensioni finora che sono state coinvolte solo marginalmente dal fenomeno Industria 4.0.

Terzo. La diffusione delle nuove tecnologie s'innesta in un processo di transizione ecologica che avrà un impatto ancora più dirompente sui processi di produzione e nel modo di organizzare il lavoro. L’investimento in risparmio energetico e in fonti rinnovabili, l’innovazione nei processi produttivi e nei prodotti necessari per soddisfare la crescente sensibilità ambientale, portano con sé un nuovo modo di lavorare, nuove competenze, nuove responsabilità individuali e collettive nei luoghi di lavoro. I green jobs sono diversi dai brown jobs e da altre occupazioni tradizionali, anche a parità di competenze e di tecnologie. La transizione verde attribuisce al lavoratore un ruolo centrale non solo come attore del processo produttivo ma anche come soggetto attivo del cambiamento. Per semplificare: se le tecnologie digitali si accompagnano a un appiattimento dell’organizzazione del lavoro e un ampliamento delle competenze, la riconversione ecologica fornisce ai lavoratori (e alle loro rappresentanze) una prospettiva strategica concreta, una occasione per affermare un modello di competizione sostenibile. Anche in questo caso, però, occorre fare i conti con la realtà.

Alla vigilia del Pnrr, la maggior parte delle imprese italiane non sembrano aver colto questa grande sfida. Solo il 9% delle occupazioni possono essere definite 'green jobs' in senso stretto, e, aspetto forse ancora più rilevante, la loro diffusione finora sembra essere stata veicolata soprattutto da eventi e catastrofi naturali (alluvioni, terremoti, ecc) piuttosto che da opzioni competitive e investimenti privati. Si potrebbe dire che il cambiamento ecologico rappresenta ancora una promessa non mantenuta per l’economia italiana; e come tale non ha dispiegato effetti di scala sul mercato del lavoro, né in senso creativo né in senso distruttivo.

In questa situazione il sindacato può fare molto. Innanzitutto, le rappresentanze sindacali possono promuovere pratiche codificate di gestione e trasmissione delle informazioni tra lavoratori, ovvero favorire percorsi formativi di alta qualità in grado di adattare le professionalità e le competenze già presenti azienda alla introduzione di nuove tecnologie. L’idea è quella di un sindacato che sia non solo promotore di diritti e di tutele, ma anche di competenze complementari al cambiamento tecnologico. Nello specifico, le rappresentanze sindacali potrebbero attivare o coordinare dei competence hub – a livello aziendale o territoriale - attraverso cui fornire ai lavoratori quelle professionalità che sono essenziali per la redditività degli investimenti privati e per massimizzare il rendimento sociale delle nuove tecnologie.

Analogamente, le rappresentanze sindacali possono farsi promotrici di una strategia di riconversione ecologica delle imprese sia a livello di contrattazione collettiva nazionale che mediante accordi decentrati. In particolare gli accordi di secondo livello possono assumere diverse declinazioni, come quelle che prevedono ad esempio l’introduzione di forme di organizzazione del lavoro funzionali all’efficientamento energetico in cambio di nuova occupazione e/o della tutela di quella esistente, ovvero di un investimento sulle competenze green.

In altre parole, la natura della attuale transizione ecologica e digitale apre al sindacato uno spazio di proposizione per molti aspetti inedito, che necessariamente si affianca a quello difesa e della rivendicazione dei diritti dei lavoratori. Le rappresentanze dei lavoratori, d’altra parte, non agiscono in un vuoto ma si confrontano ogni giorno con una cultura competitiva che, spesso, guarda alla minimizzazione dei costi piuttosto che alla massimizzazione del valore della produzione e della capacità innovativa. A ben guardare è proprio la persistenza di questa cultura competitiva uno dei freni principali alla riconversione tecnologica del nostro tessuto produttivo in modo che sia socialmente ed economicamente sostenibile. Quello che si troviamo di fronte è dunque un compito difficile, ma anche estremamente importante. Vale dunque la pena tentare. Anche con l’aiuto di quelle imprese e associazioni datoriali che hanno un comune interesse a cogliere le promesse della doppia transizione.

Andrea Ricci, economista, dirigente di ricerca Inapp. Il contenuto dell’articolo esprime esclusivamente le opinioni dell’autore e non riflette necessariamente le opinioni dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche.