I numeri a lotto delle pensioni e la mancanza di una riflessione seria sulla riforma che servirebbe. La manovra di bilancio tra tagli di tasse (ma per chi?) e la riforma del reddito di cittadinanza, come se la povertà fosse stata abolita o fosse una colpa. Mps, interesse pubblico o contesa tra privati? E, infine, si affaccia il freddo e aumentano le preoccupazioni per il nuovo diffondersi del Covid, ora fuori dai confini italiani, ma accorre pensare alle terze dosi per tutti.

Prime pagine
Non tutte uguali le aperture di questa mattina. Il Sole 24 Ore apre sulla banca senese: “Mps, un piano per comprare tempo”, mentre il Corriere della Sera torna a titolare sulla pandemia: “Verso la terza dose per tutti”. La spiegazione della scelta è nell’occhiello: “In aumento i casi in tutta Europa, timori nei Paesi dell’Est. Vaccini, via libera al richiamo di Moderna".

Le cinque colonne di Repubblica sono dedicate all’attualità politica: “Ultimatum a Draghi”, e nel sommario: “Sulla riforma delle pensioni sindacati pronti allo sciopero. Oggi tavolo con il governo a Palazzo Chigi. No al ritorno della Fornero. Si apra una trattativa su previdenza e fisco. Sbarra (Cisl): chiediamo equità. Incontro Letta-Conte, sul tavolo anche il Colle. Gelo 5Stelle su Gentiloni". Stesso tema, diverso il taglio per il Messaggero: “Pensioni, verso la Fornero”, che nel sommario illustra: “Accordo vicino tra Draghi e Lega su Quota 102, 103, 104: poi il ritorno alle norme del 2018. Ma l’intesa con i sindacati è ancora lontana. Sarà ampliata la platea dei lavori usuranti”.

Per la Stampa: “Pensioni, i sindacati alzano il muro”, e poi la spiegazione: “Oggi vertice con Draghi. Landini: non finirà come ai tempi della Fornero. Mps, il Tesoro tratta con la Ue”. Di tutt’altro taglio il Fatto Quotidiano: “B. inizia lo shopping. Noi votiamo Segre”. Infine il Manifesto: “Sbilanciati” è il titolo sulla foto notizia che ritrae Draghi e il ministro Franco, per saperne di più il sommario recita: “Dalle pensioni al superbonus, dal cashback alle tasse. I partiti della maggioranza anomala fanno il tiro alla fune sulle leggi di bilancio. Draghi media solo sui particolari. Oggi l’incontro con i sindacati. Ma per il varo della manovra il premier non intende andare oltre giovedì”.

Le interviste
“La nostra proposta unitaria è conosciuta dal governo da mesi. Noi dobbiamo lasciare alle persone la scelta volontaria di andare in pensione dopo i 62 anni o con 41 anni di contributi, a prescindere dall’età, sapendo che non tutti i lavori sono uguali e che quindi non possono esserlo neanche le regole pensionistiche, quindi c’è la necessità di introdurre elementi di forte flessibilità in uscita dal mercato del lavoro, come fatto ad esempio nell’Ape Sociale, dove chiediamo l’ulteriore allargamento". Lo afferma Luigi Sbarra, segretario generale della Cisl, intervistato da Rosaria Amato di Repubblica: "Inoltre bisogna riconoscere alle donne un anno di contributi in più per ogni figlio, sarebbe un segnale forte a sostegno della genitorialità, e garantire ai giovani, ai quali oggi viene applicato un sistema contributivo puro, e che hanno carriere discontinue una pensione di garanzia”.

Sbarra aggiunge: “Le risorse attuali sono assolutamente insufficienti, le pensioni non possono essere considerate solo un costo economico, ma c’è anche un tema di sostenibilità sociale. E comunque la riforma Fornero ha realizzato risparmi importanti, così come il finanziamento di Quota 100 non è stato interamente utilizzato. Noi chiediamo che parte di questi risparmi vengano reinvestiti per cambiare il sistema pensionistico, introducendo elementi di equità, flessibilità e sostenibilità. Il governo deve recuperare un metodo del confronto con il sindacato più strutturato e permanente, altrimenti la manovra rischia di nascere squilibrata e insufficiente a causa dello scarso dialogo che l’ha preceduta”.

A pag. 2 del Corriere della Sera, Enrico Marro interloquisce con Irene Tinagli, vice segretaria del Pd, che sulle pensioni afferma: “Noi non facciamo barricate, ma osserviamo che Quota 100 è stata iniqua, penalizza in particolare le donne. Apprezziamo lo sforzo del governo per uscire da Quota 100 con gradualità, ma sottolineiamo che il sistema delle quote non dà un aiuto concreto a chi ne ha più bisogno, cioè a chi fa lavori gravosi o si ritrova disoccupato in età avanzata. Per noi queste sono le priorità, nel rispetto dell’equilibrio complessivo della manovra”.

Dove Trovare i soldi? La risposta della dirigente del Pd non lascia tranquilli: “Bisogna fare tutte le stime e valutare le diverse ipotesi. Ma anche questa del Reddito di cittadinanza potrebbe essere una strada perché ci sono stati molti abusi. Se si riescono a recuperare risorse su questo fronte, potrebbero essere impiegate per rafforzare l’equità sulle pensioni”. E rispondendo a una domanda su Mps, la parlamentare europea afferma: “Il ministro Daniele Franco ha dato seguito a quanto detto in audizione in Parlamento, cioè che si cerca un accordo ma non a tutti i costi sia in termini di esborso per lo stato che di tutela dell’occupazione e del marchio. Evidentemente i negoziati si sono arenati perché queste condizioni non erano pienamente garantite. Ora si apre un dialogo con la commissione Ue perché c’è bisogno di più tempo”.

La Stampa, molto attenta alla vicenda Mps, questa mattina ascolta Innocenzo Cipolletta, presidente del Fondo italiano d’Investimento e della Febaf, la Federazione che riunisce banche, assicurazioni e finanza, che afferma: “Io penso che l’unica soluzione sia quella privata. Ci deve essere una parte di ricapitolazione pubblica, ma poi occorre che una banca assorba il Monte senza pensare di poter prendere solo quello che funziona”. Sul fronte transizione ecologica sul Sole 24 Ore (pag. 2) interviene il responsabile della Divisione Banche dei territori di Bankitalia Stefano Barrese che dice: “Transizione green: crediti a lungo termine per le imprese”.

Sul Secolo XIX parla l’amministratore delegato di Iren Gianni Vittorio Armani che racconta il piano industriale del gruppo: “Faremo 1 miliardo di investimenti l’anno per 10 anni. Si punterà su eolico, fotovoltaico e riduzione delle perdite idriche”. Infine, a pag. 2 della Stampa la voce del parlamentare Pd Alessandro Zan che afferma: “Domani niente voti truffa, non bisogna scherzare con la pelle delle persone. Casellati non conceda voti segreti, vediamo se la Lega vuole affossare tutto. Togliere l’identità di genere significa levare tutela ai trans e ai transgender”.

Editoriali e commenti
Lunga riflessione di Claudio Tito (pag. 2) di Repubblica sul sistema previdenziale: “L'Italia, in percentuale di Pil, spende infatti più di tutti gli altri. Sicuramente di più degli altri partner paragonabili per grandezza economica e popolazione…. Eppure questa statistica, confermata di recente dall'Ocse nel suo nucleo essenziale, potrebbe anche non essere determinante nella valutazione sull'opportunità di un intervento. Non si modifica certo uno dei capisaldi dello Stato sociale solo e soltanto perché costa troppo. Le ragioni della protezione dei più deboli non possono che essere un criterio di giudizio ineliminabile in una democrazia. Nel nostro caso, però, tutto ciò che è collegato al sistema pensionistico appare travolto in una specie di tempesta perfetta. I cui lampi e tuoni solo indirettamente hanno a che vedere con gli assegni. Eppure ne determinano l'impatto rispetto al sistema-Paese.

L'editorialista così continua: "L'Italia siede sulla seconda montagna di debito più alta tra i membri dell'Unione europea. Una circostanza che non solo ci rende perennemente in bilico nel rispetto dei parametri europei, ma ci espone costantemente ai rischi della speculazione finanziaria. E quindi della sostenibilità del debito. Siamo poi tra i partner dell'Unione con il calo demografico più preoccupante. Pochi giovani significa anche pochi giovani lavoratori che finanzieranno le pensioni di quelli più anziani. A questo si associa l'angosciante percentuale della disoccupazione giovanile. Quindi: non solo ci sono pochi giovani ma pochi tra loro sono attivi dal punto di vista contributivo. Infine, la nostra aspettativa di vita - dato di per sé decisamente positivo - è salita senza sosta fino alla recente pandemia. Poi è un po' scesa ma risulta comunque tra le più rassicuranti nel Vecchio Continente. Vuole dire, però, che mediamente il costo pensionistico pro capite tende a crescere".

Per Claudio Tito "tutto questo è ben presente a tutti. In particolare è chiaro a Bruxelles dove i conti li fanno sempre con una certa attenzione. Il presidente del Consiglio Draghi lo sa bene. La discussione in corso in questi giorni, allora, è solo in parte comprensibile. Per molti aspetti sembra rispondere a un tic. A un riflesso condizionato. Pensare di proseguire con l'attuale meccanismo di "quota 100" non solo è insostenibile ma è anche privo di spirito di solidarietà. In particolare verso le nuove generazioni. Il governo sembra così stretto tra le esigenze sottolineate dalla Commissione europea e quelle dei sindacati e di una parte della coalizione che lo sostiene".

Un dibattito che troppo spesso "ignora il contesto nel quale si svolge e soprattutto dimentica gli accordi che l'Italia - e non un singolo partito - ha assunto. Va ricordato che lo scorso anno, quando il Recovery fund era ancora una chimera, l'abolizione di "quota 100" era sostanzialmente una precondizione discussa nell'ultimo consiglio europeo (in particolare furono la Cancelliera Merkel e l'olandese Rutte a sottolinearla) per dare il via libera al Fondo. E a gennaio scorso nelle linee guida emesse dalla Commissione per l'applicazione del Pnrr si avvertiva esplicitamente che si sarebbe dovuto "dare la piena attuazione della Legge Fornero". E infatti nel Piano italiano è scomparso qualsiasi riferimento a Quota 100. Senza considerare che l'auspicato effetto moltiplicatore sulle assunzioni della riforma varata dal governo Conte, non c'è stato per niente".

L'editorialista così conclude: "Chi affronta questo tema, dunque, non può simulare l'assenza di questi dati. Le pensioni sono uno dei tratti distintivi delle democrazie e del welfare europeo. Vanno tutelate, ma anche nel lungo periodo (tra qualche anno ci sarà anche la cosiddetta "gobba" previdenziale dei "babyboomer"). Evitando di certo il disastro sociale degli "esodati" e garantendo ai pensionandi certezze sui tempi e sulla dignità della conclusione del percorso lavorativo e della successiva fase della vita. Ma anche lanciando lo sguardo oltre il consenso di breve periodo e al di là della conservazione di un pacchetto di voti o di una quota di iscritti. Perché le pensioni vanno assicurate ora, tra dieci anni e anche tra quaranta”.

Ancora di pensioni e sempre sul quotidiano romano scrivono Tito Boeri e Roberto Perotti, lunga l’analisi, nette le conclusioni: “Niente più eccezioni, regole uguali per tutti e comprensibili: chi va in pensione prima percepirà la pensione per un periodo più lungo, è dunque assolutamente ragionevole che l’importo annuale venga decurtato di conseguenza”.

Interessante, anche se non completamente condivisibile, l’analisi di Dario Di Vico sul Corriere della Sera, dove ragiona di rappresentanza politica, di diseguaglianze e disintermediazione: “Nel Novecento le disparità sociali, interpretate prevalentemente sull’asse capitale-lavoro, erano state la materia prima dei successi delle sinistre di varia ispirazione. I partiti nati dalla falce e dal martello, al potere o dall’opposizione, avevano operato una perfetta «lavorazione» di quella materia sovente in abbinata con i sindacati. Da qui un insediamento sociale straordinario tra gli operai, gli impiegati a bassa qualifica, i disoccupati e in qualche regione anche tra gli artigiani a più basso reddito. Via via con il dispiegarsi di nuove contraddizioni sociali che rendevano meno paradigmatico il conflitto di fabbrica e segnalavano l’arrivo di altre figure sociali come i precari, le partite Iva e i working poors, la rendita politica del secolo scorso è andata consumandosi. Ne sono stati una riprova un primo sfondamento di Forza Italia tra gli operai e il successo di una forza interclassista di tipo nuovo come la Lega Nord, che spostava il conflitto sui temi fiscali e territoriali".

Dario Di Vico evidenzia che "è con l’avanzata dei 5 Stelle che l’Opa sulla disuguaglianza riesce a pieno, che i partiti eredi della sinistra novecentesca vengono scalzati di brutto e che prende corpo anche una nuova elaborazione delle disparità sociali. Si fa largo un’idea della giustizia sociale che non si appaga di risultati intermedi ma che ha come primo obiettivo la «vendetta» nei confronti del capro espiatorio. Si manifesta una sfiducia totale nella intermediazione sociale come strumento di equità e all’azione dal basso dei sindacati si preferisce l’intervento top down dello Stato. Si contesta tutto l’armamentario riformista della mobilità sociale, della formazione, delle politiche per il lavoro e lo si sostituisce con unico provvedimento — il Reddito di cittadinanza — che finanzia i meno abbienti in chiave di Grande Redistribuzione”. 

Di Vico conclude il suo ragionare con degli interrogativi: "Ma umiliando i 5 Stelle e astenendosi dal votare i disuguali hanno operato una scelta di ulteriore radicalizzazione, hanno volontariamente gettato alle ortiche l’ennesima chance di introdurre le proprie ragioni nel circuito della politica? O, come sostengono altri, si sono presi solo un turno di riposo? Se fosse vera questa seconda ipotesi potrebbero aver concorso al temporaneo digiuno elettorale anche fattori che esulano dallo stretto rapporto con la politica ma che investono slittamenti antropologici conseguenza dello choc pandemico. Una maggiore attenzione alla vita «minima», al privato e alla prossimità, persino alla ripresa dei consumi, può aver determinato nell’immediato per gli elettori con meno reddito e scolarità — quell’area che i sondaggisti chiamano «le periferie» — un’accentuazione della distanza dalla res publica”.

Infine, interessante analisi di Davide Conti sul Manifesto dal titolo emblematico: “Quando l’obiettivo sono le Camere del lavoro”. Scrive l’autore: ”Stante la fallacia di affermazioni smentite dai fatti della storia (pensiamo al contributo fondante dei comunismi mondiali nella Resistenza, nella Seconda Guerra Mondiale, nella ricostruzione del mondo post-bellico, nella creazione di Stati costituzionali come l’Italia o di organismi internazionali come l’Onu), il tema non dovrebbe comunque riguardare la contrapposizione fascismo-comunismo ma la biforcazione storica fascismo-antifascismo.

È questo ciò che segnala l’assalto alla Cgil e che invece viene accuratamente evitato. La qualificazione dell’antifascismo non solo come movimento di urto contro le dittature dell’Asse Roma-Berlino (dunque limitato al tempo storico della guerra e del regime) ma soprattutto come «teoria dello Stato» in grado di disegnare modelli materiali dello spazio pubblico costruiti attorno alla democrazia conflittuale; all’allargamento paritario dei diritti sociali, civili e politici di donne e uomini; alla partecipazione delle classi popolari alla direzione dello Stato; al rifiuto della guerra ed alla promozione della cooperazione internazionale tra i popoli. 

Una teoria dello Stato non limitata ai confini italiani ma che dal confino (fascista) italiano prese corpo e forma con il «Manifesto di Ventotene» che disegnava la costruzione di un assetto internazionalista in luogo dell’ideologia nazionalista che aveva portato l’Europa nel baratro di due guerre mondiali. Ciò che sdegna delle manifestazioni di oggi non è solo la presenza fascista nei cortei (già di per sé fattore discriminante) ma soprattutto il fatto che dal 9 ottobre in poi le sedi della Cgil, le Camere del lavoro ed i luoghi del movimento sindacale continuano ad essere ritenuti obiettivo da colpire e devono essere protette in modo encomiabile da militanti, quadri e lavoratori.

È in questa continuità tra i fatti del 9 ottobre ed i successivi tentati raid contro il mondo del lavoro che si accende la spia di una situazione più complessa in una fase di transizione come l’attuale. Non saranno certo i soggetti che in piazza attaccano i luoghi del lavoro a svolgere ruoli e funzioni nella ricostruzione post crisi pandemico-sociale. Sarà molto probabilmente qualcosa di diverso e di non ancora emerso. Qualcosa per ora rifluito nell’astensione (ormai maggioritaria) ma pronto a riemergere come base di massa di un nuovo assetto nel momento in cui le decisioni sul futuro chiameranno in causa interessi di classe e ragioni sociali diverse e contrapposte tra loro. Fu così dopo i governi «tecnici» di Ciampi (che segnò la fine del sistema dei partiti anticipando l’avvento berlusconiano) e Monti (espressione prima dell’austerità e poi dell’esplosione dei populismi sovranisti). Quello di Draghi difficilmente farà eccezione e per questo sarà necessario prepararsi per tempo”.

Economia, lavoro e sindacato
Le pensioni sono il tema che attraversa tutti i giornali in edicola questa mattina. Nel pomeriggio, alle 18, è previsto un incontro tra i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil e il presidente Draghi in vista del varo della legge di bilancio (al momento il Consiglio dei ministri che dovrebbe licenziare la manovra è previsto per giovedì prossimo). Ciò che più sconcerta è che si danno i numeri delle quote ma non sembra si rifletta su una riforma complessiva del sistema previdenziale in grado di garantire una vecchiaia serena a chi è prossimo alla quiescenza, ma anche a chi oggi si affaccia al mondo del lavoro. E si continua a non prendere affatto in considerazione il diverso percorso lavorativo tra uomini e donne, continuando a scotomizzare il fatto che il lavoro di cura non è solo una questione privata ma elemento fondamentale per la riproduzione sociale. E poi ci si lamenta della sempre più scarsa propensione alla natalità del nostro Paese. Insomma non si tratta di dare i numeri, ma di predisporre un sistema pensionistico degno di questo nome e in grado di rispondere a bisogni e diritti, non solo di tenere i “conti in ordine”. Questo chiedono i sindacati.

Scrive Roberto Mania su Repubblica: “Due cose il sindacato non può permettersi sulle pensioni: farsi scavalcare dalla Lega nella difesa dei pensionandi, accettare il ritorno alla legge Fornero senza alzare le barricate che vuol dire mobilitarsi fino a proclamare lo sciopero. È questo il recinto angusto entro il quale i leader di Cgil, Cisl e Uil devono definire la loro strategia. Tutto dipenderà dalla risposta che oggi darà loro il presidente del Consiglio, Mario Draghi. Perché se a Palazzo Chigi il premier confermerà la linea dura espressa a Bruxelles la scorsa settimana (l’obiettivo è tornare gradualmente alle regole della riforma del 2011 con l’età pensionabile a 67 anni) si andrà alla rottura. Le tre confederazioni considerano «inaccettabile» quella impostazione per diverse ragioni non solo perché i pensionati costituiscono circa la metà dei propri iscritti. Le pensioni, tanto più in un sistema che dal 1996 calcola l’assegno pro quota sulla base dei contributi versati e non più esclusivamente in relazione alle ultime annualità retributive, sono parte del salario di un lavoratore, sono salario differito. E il salario – nel sistema di relazioni industriali italiano - è materia sindacale, definito attraverso la contrattazione a più livelli. È una questione decisiva per Cgil, Cisl e Uil, quasi identitaria”.

Ne scrivono – tra gli altri -  anche Marco Rogari a pag. 7 del Sole 24 OreAndrea Ducci a pag. 10 del Corriere della Sera; Luca Cifoni a pag. 2 del Messaggero; Massimo Franchi a pag. 2 del Manifesto.

Altro tema all’ordine del giorno della manovra di bilancio è il reddito di cittadinanza. Interessante la riflessione di Roberto Ciccarelli sul Manifesto: "Secondo le «anticipazioni» circolanti da mesi - sempre le stesse – si prospetta un inasprimento delle condizioni già durissime imposte ai poveri e ai lavoratori poveri dai pentaleghisti del «Conte 1». Il partito unico draghiano oggi si è reso conto che mai a 1.109.287 persone che hanno sottoscritto un «patto per il lavoro» (dati al 30 settembre dell’Anpal) saranno fatte tre «proposte congrue di lavoro». Sarebbe stata trovata questa soluzione: dopo il rifiuto della prima «offerta», cioè di un lavoro precario, il sussidio sarà tolto al beneficiario (altri dicono dopo due). La «colpa» sarà di chi avrà rifiutato e tutti continueranno nel gioco preferito dalla politica classista: sono i precari che non vogliono lavorare mentre le povere «imprese» non trovano lavoratori. Lo abbiamo visto in estate con l’infondata ma pervasiva campagna degli sfruttatori del lavoro stagionale che si lamentavano del fatto che i percettori del «reddito» non accettavano paghe da fame. In compenso si progetta di mettere al lavoro gratis i percettori del «reddito» per pulire le strade in una Roma sommersa dall’immondizia. Il VII Municipio ha emesso un bando. Un modo per sostituire gli addetti pagati dell’Ama. Il neo-sindaco Gualtieri pensava a questo quando ha promesso una «Roma pulita entro natale»? Gli 800 milioni stanziati in legge di bilancio sono diventati lo spunto per ragionare sui «risparmi» da fare su una misura, finanziata in deficit, e non attraverso il sistema fiscale, che costa più di otto miliardi di euro all’anno. I soldi dovrebbero andare agli incentivi alle imprese e al taglio delle tasse sul lavoro. Un classico esempio di contrapposizione tra i «lazzaroni», il «salariato» e i «produttori». Dalla solidarietà e dalla giustizia sociale si passa alla guerra dei penultimi contro gli ultimi. Mentre i politici riconoscono l’utilità del «reddito», (quasi) tutti sembrano d’accordo nel punire i lavoratori poveri e ridimensionare una platea insufficiente.

Il sussidio di ultima istanza contro la povertà assoluta è vittima di un duplice equivoco creato dai Cinque Stelle nel 2018. Questa misura non è un «reddito di cittadinanza», cioè un reddito universale che soddisfa i bisogni basilari di tutti, sia i lavoratori che i non lavoratori. In più esclude milioni di persone in povertà assoluta, penalizza le famiglie numerose, esclude gli extracomunitari residenti da meno di 10 anni e non contempla il milione di poveri in più prodotti solo nel 2020 dalla crisi innescata dal Covid. Non è un reddito minimo garantito che potrebbe coinvolgere i lavoratori poveri. La truffa semantica del «reddito di cittadinanza» non è una «politica attiva del lavoro». In Italia non esiste, né esisterà (per fortuna) per la prossima generazione un sistema organico di «Workfare», ma si prospetta il taglio del sussidio con il passare dei mesi. Ci sarebbe bisogno di una riforma del titolo V della Costituzione che lascia alle regioni la competenza decisiva sulle politiche occupazionali e impedisce di centralizzarle nel governo. La riforma fu inserita da Renzi nel «suo» referendum giustamente bocciato. L’obiettivo è lo stesso: stigmatizzare i poveri e imporre lavori precari o gratuiti. Nessuno nel Palazzo parla di una riforma universale del Welfare e di estendere il «reddito di cittadinanza» in un reddito di base decisivo per affrontare la riconversione ecologica”.

Novità dal fronte delle crisi industriali, mentre si continua a trattare per la Whirlpool, ne dà notizia la Repubblica di Napoli che annuncia l’arrivo della sottosegretaria Todde in fabbrica e un nuovo vertice il 2 novembre, Carmine Fotina a pag. 2 del Sole 24 Ore dà conto di una direttiva del ministro Giorgetti sulla gestione delle vertenze. “Struttura rafforzata e una istruttoria sui tavoli effettivamente chiusi”. Scrive Fotina: “Una direttiva del ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, in corso di registrazione alla Corte dei Conti, prevede che al fine di garantire trasparenza e accessibilità alle informazioni relative alla gestione delle crisi di impresa dovrà essere pubblicato sul sito del Mise, ogni 6 mesi, un resoconto sull’attività dei dia conto dei tavoli aperti. Nella stessa direttiva si prova a mettere ordine a tutta la materia e a dare un perimetro di azione più chiara alla struttura di crisi di impresa il cui coordinamento, dallo scorso luglio, è stato affidato a Luca Annibali”.

E poi la pandemia. Si va verso la terza dose per tutti perché crescono gli allarmi per la diffusione del virus fuori dai confini nazionali. Scrive Alessandra Muglia a pag. 5 del Corriere della Sera: “Passata l’estate da Mosca a Londra il Covid è tornato a fare paura. I casi sono in ripresa in quasi tutti i paesi europei, soprattutto in quelli dell’Est e le vaccinazioni procedono a rilento”. E Arianna Logroscino, sempre sul quotidiano milanese, scrive: “Per la terza dose di vaccino a tutti è solo questione di tempo. E il conto alla rovescia è già iniziato. La gran parte degli under 60, infatti, si è vaccinata meno di 6 mesi fa. per quando sarà maturato il termine dato dagli scienziati per la terza iniezione il sistema per la somministrazione sarà pronto. Secondo Brusaferro, direttore dell’istituto Superiore di Sanità, Oggi è raccomandata per alcune categorie, ma  la terza dose di vaccino anti-Covid per tutta la popolazione è uno scenario verosimile. Noi come sempre monitoreremo la persistenza della risposta immunitaria, e mano a mano che si saranno evidenze del caso, saranno declinate dal punto di vista organizzativo”.

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Il paradosso dell’irregolarità di Carlo Ruggero
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