È possibile pensare una città di Taranto diversa da quella attuale? È lecito immaginare uno sviluppo territoriale ed economico diverso dalla monocultura dell’acciaio? Processi di riqualificazione territoriale e rigenerazione ecologica di aree industriali in Europa sono abbastanza comuni, basti pensare a Bilbao, alle città tedesche della Ruhr, a diverse città inglesi. La questione urbana, da sempre al centro del dibattito degli urbanisti, non trascura le rilevanze delle difficoltà nei processi di riconversione economica nei “riti di passaggio”, ma nel caso di Taranto non si può non considerare un diritto di vivere in una città normale, come oramai rivendicato dai cittadini e da diverse associazioni locali.

La vicenda della città di Taranto è sull’agenda politica regionale e nazionale da diversi anni. Su Taranto sembrano giocarsi i destini dell’Italia: si confrontano, senza soluzioni, l’importanza del Pil e dell’occupazione, il disastro sanitario della città e la sicurezza nella fabbrica. Ancora poco si considera degli effetti sociali indiretti. Recenti studi mettono in evidenza la percentuale di giovani che hanno abbandonato ogni speranza di inserirsi nel mondo lavorativo e perciò non studiano, non lavorano, né seguono percorsi di formazione: il cosiddetto fenomeno dei Neet, che si attesta al 33,4% della componente giovanile.

Lo svuotamento dell’anima sociale dei giovani risalta dalla crescita della devianza e microcriminalità, già segnalata nel “Primo rapporto sulla devianza minorile in Italia” (ministero di Giustizia, 2009) e confermato in Puglia da una recente ricerca Ipres (“Sulla devianza minorile: un’analisi dello scenario nazionale e pugliese, 2019). L’ultimo rapporto Svimez ci avverte della consistente nuova emigrazione dei giovani del meridione di Italia. Il quadro di riferimento appare oscuro, forme di improvvisazione politica dominano la scena, diversi profili di razionalità si contrappongono, senza che nessuno prospetti un progetto complessivo di città. La contingenza avvolge il destino di Taranto.

Ripensare Taranto. Viene in mente “The waste land” di T.S. Eliot: “Sedetti sulla riva a pescare, dietro di me l’arida pianura riuscirò finalmente a fare ordine nelle mie terre?” (“La terra desolata-Quattro quartetti”, Feltrinelli, Milano, 2014). Una città di 196 mila abitanti e di 82.229 famiglie, in costante declino demografico. Il 50% delle famiglie è formato da uno o due componenti; una crescente popolazione anziana di 41 mila residenti (il 20,6%) di oltre 65 anni. Una popolazione giovanile tra i 20 e 34 anni pari a 35 mila unità (il 17,5%) in costante diminuzione. Una superficie territoriale di 209 chilometri quadrati composta da sei circoscrizioni, che sono delle città a sé stanti: Tamburi, Paolo Sesto, la Città Vecchia, il Borgo, Talsano-Lama, Salinella.

E sopra ogni cosa, incombente, c’è l’Ilva (o ex Ilva), il più grande stabilimento siderurgico europeo; dal 2012 sottoposto a sequestro e commissariamento per gravi violazioni ambientali che si protraggono da almeno quarant’anni, con conseguenze deleterie su diverse economie storiche tarantine: pesca, mitilicoltura, zootecnia e agroindustria. Lo studio “Sentieri” (ministero della Sanità, 2008-2012) ha evidenziato il devastante impatto sia sotto il profilo sanitario, con l’aumento drammatico di diversi patologie mortali, sia ambientale, con la contaminazione dell’aria, del mare, del suolo e della catena alimentare da diossina.

Solo qualche decennio fa è stato coperto il nastro trasportatore che dal porto conduceva carbone nei parchi minerari, solo qualche giorno fa è stata completata la copertura degli stessi. Solo pochi anni fa si produceva il 9% della diossina industriale europea, prima di inserire dei filtri in grado di ridurne l’emissione in atmosfera. Il degrado ambientale è diventato abbandono urbanistico e incuria edilizia: la Città Vecchia” cade a pezzi, il “borgo” asciugato di attività commerciali, i quartieri periferici luogo di accentuato disagio sociale. Eppure l’ex Ilva vale ancora circa il 70% del Pil di Taranto e il 12% di quello regionale. È l’unico stabilimento italiano che ancora produce acciaio di qualità, unico in Europa, che è la sua vera forza. Un’industria con una dotazione organica di 8.200 dipendenti, a cui bisogna aggiungere i circa 3.500 lavoratori dell’indotto.

Mette a disagio richiamare il concetto di “catastrofe”, ovvero il punto di non ritorno di un sistema, come descritto diversi anni fa da Renè Thom (“Stabilità strutturale e morfogenesi. Saggio di una teoria generale dei modelli”, Milano, Einaudi, 1980); ma questo è il punto da cui bisogna partire e di cui dobbiamo essere consapevoli. Taranto vive, da diversi anni, una crisi di sistema oramai irreversibile, con istanze tra le parti inconciliabili, tenute assieme, prima dell’intervento della magistratura, da una capillare, quanto efficace, rete di corruttela.

Gli impianti di produzione sono vetusti, hanno oltre cinquant’anni e pongono seri problemi di sicurezza nelle attività lavorative ordinarie, spesso interviene la procura, persino i temporali fanno paura, pochi mesi fa un forte acquazzone ha spezzato una gru. L’attuale condizione produttiva tende a frenare nuove economie che rimangono assopite. Una cosa sembra certa: la città è stanca di questa situazione “sospesa” tra lo spazio del non essere completamente morti e del non essere più completamente vivi, un po’ come gli angeli di Rilke, basta fare un giro in città per percepire questo stato d’animo.

Nessuno a oggi sembra in grado di decidere, ognuno degli attori in gioco pone una soluzione secondo il punto di vista personale e/o lobbystico. La mancanza della capacità politica di guardare al futuro, di prospettare scenari, di avere fiducia nel progresso sembra completamente smarrita. Il rimando, a tutti i livelli di governo, è continuo. La perdita di fiducia nella classe dirigente locale è venuta meno già nel 2006, quando una drammatica crisi di liquidità ha portato al dissesto finanziario del Comune, nonostante la città gestisse una quantità di risorse finanziarie vicina ai mille milioni di euro nel periodo di programmazione strutturale 2000-2006.

Diverse agenzie, non ultima Svimez, segnalano un peggioramento continuo della situazione delle città del Sud. Complicata appare la via della decarbonizzazione del processo produttivo, per l’attuale mancanza di gas per alimentare l’impianto e per il necessario rinnovo totale delle installazioni. Ma, soprattutto, l’acciaio così prodotto non interessa a nessuno, meno performante dell’attuale e si può produrre altrove a un costo minore. Nell’incertezza, ha prevalso il gioco della “sopravvivenza”, l’angoscia ha dominato gli attori: l’angoscia delle patologie, della perdita del posto di lavoro, della chiusura delle attività commerciali, del degrado sociale, dei crolli continui della Città Vecchia.

Eppure, vi sono diverse soggettività resilienti nel territorio tarantino che sollecitano la necessità di ripensare un altro modello di sviluppo e una nuova convivenza civica fondata sulla sostenibilità dell’economia, consci tra l’altro delle diverse stratificazioni di diseguaglianza sociale ed economica (costi sanitari per le famiglie e deprezzamento verticale dei valori immobiliari, fra tutte), in particolare per i cittadini del quartiere Tamburi che vivono a pochi metri dal parco minerale dell’acciaieria. Nei giorni cosiddetti “wind-days” volano verso l’insediamento residenziale le polveri dei minerali in notevoli quantità, che si aggiungono agli elementi inquinanti scaturiti dalle combustioni dei processi produttivi. In quei giorni, nel quartiere è divieto di andare a scuola e di uscire di casa.

Si può allora pensare una Taranto diversa? E quali sono le soluzioni realmente praticabili senza farci troppo male? A sentire lo Svimez (“Prima stima degli effetti macroeconomici della chiusura dell’Ilva”, 2019), l’impatto della chiusura dello stabilimento sarebbe tutto negativo. Ciò non tiene però conto delle proposizioni di altre attività, che dalla chiusura della fabbrica potrebbero trarre benefici: turismo, produzione agroindustriale, pesca, il transhipment bloccato dalla presenza ingombrante delle aree del siderurgico, come alcune attività legate alle bonifiche industriali. Come sarebbe opportuno iniziare a esplorare le potenziali capacità della blue economy, in grado di “ricomporre l’inspiegabile frattura del rapporto tra il mare e la città” per “costruire un’identità che possa guidare i processi di riqualificazione in un’ottica di stretta connessione”, così come espresso dal documento dell’Ance di Taranto (“Opera prima”, maggio 2017).

In tale documento vengono indicate diverse azioni da intraprendere: il potenziamento del sistema della diportistica nautica, la produzione di acquacoltura, con la lavorazione/trasformazione dei prodotti, la creazione di un centro di innovazione delle attività del mare impiegando i magazzini abbandonati da oltre quarant’anni in Porta Napoli, il completamento del Museo storico del Mare, già presente, ma rinchiuso nell’Arsenale militare, il completamento del percorso turistico integrato lungo la Circumarpiccolo al fine di favorire il turismo lento in raccordo con il sistema regionale e nazionale dei “Cammini”, la nascita del settore della pesca turismo, recuperando il grande patrimonio immobiliare pubblico e riattrezzando apposite imbarcazioni per favorire un turismo sostenibile.

È probabile che non si coprirebbero le perdite di Pil dovute all’interruzione delle attività della fabbrica, ma il trapasso potrebbe essere meno doloroso; a Taranto non si può più chiedere di prendersi carico dell’economia di altri territori. È da tener presente che diversi addetti al siderurgico non sono metallurgici di formazione, spesso sono fini artigiani: muratori, idraulici, elettricisti e una loro riconversione sarebbe rapida. Nell’immediato, sono pronti e finanziati progetti per circa un miliardo di euro, derivanti da diverse canali di finanziamento e in particolare dal Contratto istituzionale di sviluppo dell’area di Taranto, messi assieme da Asset (Agenzia regionale per lo sviluppo ecosostenibile del territorio), società in house della Regione Puglia, impegnata alla redazione del Piano strategico della città di Taranto (Psta), che prevede investimenti in opere nei settori ambiente, trasporti e logistica, edilizia pubblica, economia blu. Senza contare le attività della ricostruzione della Città Vecchia, attraverso l’avvio di progetti di restauro e valorizzazione, con l’obiettivo di farla diventare luogo abitabile, visitabile, turisticamente accettabile, sostenibile e sede di un terziario avanzato, con musei e università, nell’ottica prima espressa di ricomposizione del rapporto tra la città e il mare.

Taranto, nonostante che i fumi e le polveri ne abbiano fatto una città grigia, rancorosa, frammentata, fondata sul disordine urbanistico e sul decadimento sociale, è ancora un luogo di bellezza e conserva uno scrigno di risorse culturali di notevole interesse. Ha una sua precisa connotazione locale, ha un genius loci particolare, alimentato dalla presenza dei due mari. Il Mar Piccolo, che sta tornando a essere l’enorme serbatoio di biodiversità, il Mar Grande, con le sue attività marinare. Taranto ha un ecosistema territoriale di grande fascino: le gravine dell’Arco ionico nel versante di ponente, la costa jonica salentina di elevata qualità ambientale nel versante orientale.

Nel futuro prossimo la sfida sarà quella di implementare una maggiore diversificazione produttiva del territorio, con una nuova e più ampia progettualità infrastrutturale materiale e immateriale. Bisogna superare le angosce quotidiane, l’oscurità delle visioni e degli interessi immediati degli industriali tarantini e accompagnare le attività istituzionali di governance, con l’apertura agli stimoli delle potenzialità del “reticolo associativo locale”, pronto a fare la sua parte nel “prendersi cura” dei beni culturali e ambientali e di favorire iniziative economiche di micro rigenerazione dal “basso”.

Francesco Maiorano, urbanista, esperto in valutazione ambientale