Confesso di aver provato emozione, con venature di commozione, nel leggere tra le proposte che Jeremy Corbyn e il Labour Party hanno elaborato per le prossime elezioni di giovedì 12 dicembre nel Regno Unito l'idea di istituire un gruppo di lavoro con – tra gli altri – il duplice obiettivo di includere l'orario di lavoro tra i temi della contrattazione collettiva nel Paese e di portare in dieci anni la media dell'orario di lavoro settimanale a 32 ore. Obiettivo, quello della riduzione dell'orario di lavoro, da realizzare a parità di salario e da raggiungere attraverso interventi per aumentare la produttività.

La ragione dell'emozione sta nel fatto che per la prima volta da almeno tre decenni uno dei partiti maggiori della sinistra europea esprime finalmente, con la chiarezza di formulazione necessaria, una proposizione politica e un punto di vista in dissonanza esplicita con quel pensiero unico di stampo liberista che da troppo tempo domina – non adeguatamente contrastato – la discussione sui temi economico-sociali e, dunque, anche sulle questioni che riguardano il core business dell'attività sindacale, tra le quali, appunto, il salario e l'orario di lavoro e la loro definizione per via negoziale.

Le proposte sul lavoro del manifesto laburista hanno il merito di provare a ribaltare il mainstream secondo cui questo nostro tempo – il tempo dell'economia digitale e delle piattaforme, della gig economy e del lavoro agile, dell'industria 4.0 e dei robot – deve essere il tempo della flessibilità totale e della disponibilità permanente della forza lavoro, coniugate (soprattutto per i giovani e i nuovi assunti, con qualsivoglia tipologia contrattuale o lavorativa) con l'accettazione di bassi salari e di standard di diritti e tutele inferiori rispetto ai lavoratori del secolo scorso.

Il rischio della disoccupazione, la lotta per la competitività delle imprese e dei sistemi economici nazionali, la guerra feroce scatenata dalla rapidità della globalizzazione, sono stati i cavalletti su cui si è poggiata questa rappresentazione di massa, alla cui diffusione hanno purtroppo contribuito anche l'afonia e il disorientamento fatale della sinistra, incapace di elaborare dopo il 1989 un pensiero e un’idea nuova di economia e di società, come alternativa al modello neoliberista.

Sono convinto che tra le idee nuove di cui discutere in questo nostro tempo ci dovrebbero essere proprio le questioni della giusta retribuzione del lavoro, della valorizzazione e del protagonismo dei lavoratori di fronte alla sfida della digitalizzazione e delle nuove tecnologie, della redistribuzione del tempo tra lavoro e vita privata, della riduzione dell'orario di lavoro. Siamo nell'epoca del “fare di più con meno”, della progressiva diminuzione dell'apporto umano al processo produttivo, della diffusione su scala sempre più ampia di robot e sistemi automatici nei luoghi e nei sistemi della produzione. Un processo che sicuramente distrugge lavoro e ne crea di nuovo, in una dinamica di cui non possiamo conoscere il saldo numerico finale, ma che è già prepotentemente in atto.

Di fronte a questo processo, credo che il movimento sindacale non possa eludere il tema di come garantire che i lavoratori vengano messi nella condizione di non essere spiazzati dai cambiamenti tecnologici o di subirne solo passivamente gli effetti. Si pone nuovamente, come in altri momenti di trasformazione globale del lavoro e dei suoi caratteri materiali, la questione della formazione dei lavoratori, ossia di realizzare con l'impegno dei governi e delle imprese un grande progetto di adeguamento del loro bagaglio formativo e di conseguimento delle abilità necessarie per affrontare il nuovo contesto.

Ma per il sindacato, a livello nazionale e soprattutto nella dimensione internazionale, si pone con altrettanta forza il tema di come far sì che i benefici delle nuove tecnologie, i vantaggi del digitale e della robotizzazione, i margini più ampi di produttività ed efficienza, siano equamente distribuiti nella società, producendo una win-win situation che veda finalmente riconosciuto il contributo del lavoro e non solo il primato della creazione di valore per gli azionisti delle imprese.

A differenza di quanto è avvenuto in tutte le precedenti rivoluzioni industriali, in quella attuale non è ancora scontato che i progressi tecnologici e l'introduzione di nuovi sistemi di lavoro portino, più o meno automaticamente, a un lavoro meno faticoso, più distribuito e meglio pagato. Anzi, se vogliamo essere obiettivi, sempre più frequentemente i nuovi lavori delle piattaforme e delle applicazioni su smartphone e tablet sommano precarietà a salari bassi e a condizioni non degne della modernità. Non credo si possa considerare moderno o gradevole vedere in quali condizioni ambientali e di contesto lavorativo operano, solo per fare un esempio, quanti trasportano cibo dai ristoranti nelle nostre case, condizioni che più che a un lavoro dignitoso fanno pensare a situazioni di grave disagio sociale (basti guardare questi lavoratori che stazionano nelle strade, in attesa davanti ai ristoranti dai quali aspettano di prelevare il carico, oppure in moto o bici quale che sia il tempo atmosferico). Così come dobbiamo ammettere che l'automazione spinta nei cicli industriali sta certo producendo aumenti di produttività, a cui però non fanno seguito i corrispondenti miglioramenti sui salari e sulle condizioni di lavoro che sarebbe lecito aspettarsi.

Molto rudemente, la domanda è: se si produce sempre di più con meno persone e se chi produce non ha retribuzioni adeguate alla nuova situazione, chi e come potrà acquistare quanto prodotto? Le macchine e i robot possono fabbricare oggetti e fornire servizi, come e più degli esseri umani. Ma non possono acquistarli, almeno non ancora. Credo che sia arrivato il momento di affrontare il tema, assieme alla discussione su come adeguare e rilanciare la contrattazione collettiva come strumento tanto di politica industriale e redistributiva quanto di ricostruzione di solidarietà e sentire comune dei lavoratori. Un compito che la politica e il governo della cosa pubblica devono agevolare e promuovere, per invertire la tendenza al rinsecchimento delle relazioni sociali e per contribuire a ridefinire il rapporto tra politica ed economia, oggi sbilanciato a favore di quest'ultima.

Nel percorso che ha portato i laburisti britannici alle nuove proposte sul lavoro contenute nel manifesto 2019, un ruolo importante è stato svolto dal rapporto curato da Lord Robert Skidelsky, prestigioso economista e biografo di John Maynard Keynes, intitolato “Come ridurre l'orario di lavoro”. Nell'introduzione al rapporto (che si può leggere in italiano grazie alla preziosa traduzione di Andrea Pisauro e Tommaso Brollo, dell'associazione I pettirossi, al link https://ipettirossi.wordpress.com/2019/11/24/come-ridurre-lorario-di-lavoro/), l'autore scrive: “Le persone dovrebbero lavorare di meno per vivere. Dover lavorare di meno in quello che serve fare, e più in quello che si vuole fare, fa bene al benessere materiale e spirituale. Ridurre l'orario di lavoro – il tempo che uno deve lavorare per mantenere “il corpo e l'anima in vita” – è quindi un prezioso obiettivo etico. È anche un obiettivo molto desiderato”.

Si tratta, a mio parere, di una bella base di partenza per ridefinire i caratteri di una proposta di sinistra su questi temi. Ricordando che lavorare di meno e guadagnare di più non sono slogan da confinare nell'album dei ricordi o nei libri di storia. Sono temi che possono, e direi devono, tornare a scaldare i cuori delle donne e degli uomini che lavorano, dei giovani che vogliono cambiare la società, di tutti noi.

Fausto Durante è coordinatore della Consulta delle politiche industriali Cgil