Dieci anni fa, in occasione del quarantennale delle lotte operaie e studentesche del 1969, Bruno Ugolini, giornalista de l’Unità, scriveva su Rassegna Sindacale un ricordo personale del 28 novembre 1969, quando ebbe luogo la grande manifestazione operaia indetta da Cgil, Cisl e Uil. “Mi affidano i resoconti dei comizi”, ricorda Ugolini, “mentre Ugo Baduel e Alessandro Cardulli descrivono un corteo lungo cinque chilometri. Il titolo principale racconta di una grande vittoria operaia mentre è interessante notare come l’editoriale anonimo sostiene che ‘l’unità sindacale è tornata a trionfare in Italia di ogni ostacolo, di ogni incertezza, di ogni attentato’… I romani non hanno mai visto tanti operai in una sola volta”.

Gli operai, gli studenti: i protagonisti di una rivolta, di un cambio di paradigma sociale, di una lotta per le trasformazioni sociali e culturali, in un Paese ancora fortemente arretrato e dilaniato da mille ingiustizie e da mille privilegi. Furono, il 1968 e il 1969, i due pilastri sociali di quel che Bruno Trentin definì “il secondo biennio rosso”. Due pilastri che in quel biennio provarono a dialogare, ma che sperimentarono anche aspre forme conflittuali. Il conflitto tra movimento studentesco e movimento operaio venne così commentato in quel novembre del 1969 dallo stesso Trentin: “Il confronto, la critica reciproca, lo scontro anche di posizioni diverse fra organizzati e movimento studentesco possono oggi diventare la matrice di una forza nuova che va ben al di là di una lotta contrattuale”. Si tratta di una riflessione, anzi di un pensiero lungo, che Trentin porterà a piena maturazione venti anni più tardi, in occasione del XII congresso della Cgil, quando si dovette affrontare la necessità di un cambio radicale nell’assetto teorico, politico e organizzativo della più grande organizzazione sindacale italiana. A partire proprio dalla matrice antiautoritaria dei movimenti, studentesco e operaio, del secondo biennio rosso.

La questione veniva posta con chiarezza, ed era la questione del potere, o dei poteri, e del loro possibile rovesciamento attraverso la giunzione tra la tradizione illuminista, della conoscenza emancipatrice, e la coscienza di classe. Una giunzione che avrebbe trovato nel nuovo “sindacato dei diritti” la sua principale innovazione. La ricostruzione di quel periodo storico e delle vicende che caratterizzarono l’autunno caldo non può dunque prescindere da una rilettura parallela tra quello che si potrebbe definire “l’anno degli studenti”, il 1968, e quello che invece fu “l’anno degli operai”. Riflettendo sulla portata dirompente di questi processi Trentin giunse a ritenere che fosse necessario risalire ai primi anni sessanta per trovare le matrici del ’68. “Fu in quel periodo che le nuove generazioni che non avevano vissuto la tragedia e le costrizioni della seconda guerra mondiale cominciarono ad assumere un ruolo da protagoniste”.

Anche in Italia, come nel resto del mondo, le avvisaglie dell’esplosione del malcontento, che trasformò stili di vita e assetti sociali della società, sono riconducibili ai primi anni sessanta. Queste spinte innovatrici furono individuate da Trentin in particolare nella rivolta popolare contro il governo Tambroni sostenuto dal partito neofascista. Quelle proteste rappresentarono la nascita di una nuova coscienza collettiva e l’affermarsi di un movimento giovanile che andava maturando. In un Paese che attendeva una svolta politica di segno progressista, l’inatteso ingresso del Movimento sociale italiano nella maggioranza di governo provocò sussulti sanguinosi e manifestazioni aspre, in cui il filo dell’azione sindacale si intrecciò con quello politico spesso divenendo un tutt’uno. Il tormentato rapporto tra le confederazioni sindacali si legò a stretto giro a una nuova unità, seppur fragile e densa di contraddizioni, nelle piazze e nelle fabbriche.

“Era l’unità spontanea delle ultime leve, che pure fino ad allora erano parse fatalmente avviate a copiare senza problemi il modello borghese, creando una società neutra di tipo americano. A smentire l’irreversibilità pacifica di questa evoluzione, fece la sua prima comparsa nei moti del 1960 quella caotica voglia di partecipazione che spinge i giovani a rifiutare gli schemi e a rimettere sotto verifica ogni cosa: un po’ per generico desiderio di fare casino, un po’ per il gusto di scoprirsi improvvisamente forti. Questa vitalità sregolata, fantasiosa e imprevedibile, procurerà negli anni successivi seri problemi alle forze sindacali, costringendole a tenere sotto controllo il fenomeno, col rischio di cadere, per contrasto, nel burocratismo autoritario, ma in parte almeno andrà a rinsanguarle” (B. Trentin, “Autunno Caldo. Il secondo biennio rosso 1968-1969”, Editori Riuniti, 1999).

L'autunno del '69, l'autunno caldo, rappresentò così il culmine di quello che può essere denominato il decennio operaio; fu l’anno in cui il rapporto sindacato-lavoratori visse una tensione rinnovatrice, l’anno della partecipazione di massa che contribuì a innalzare i contenuti, le forme e gli strumenti dell’azione, l’anno degli aumenti uguali per tutti, l’anno degli operai dopo quello degli studenti, delle 40 ore, dei delegati che presero il posto delle vecchie commissioni interne e delle assemblee. Lo scoppio di quella lunga stagione di lotte non pose in discussione solamente gli assetti salariali e normativi, perché la posta in gioco consisteva nel mantenimento della capacità di rappresentanza da parte dei sindacati, a cui si contrapposero le spinte spontaneiste provenienti dal movimento studentesco e dai comitati di base.

Sotto la spinta della base, i sindacati dei metalmeccanici recuperarono la guida del movimento, firmando un nuovo contratto che sancì la fissazione dell'orario di lavoro a 40 ore settimanali, con una riduzione di 4-5 ore: un risultato senza precedenti in Italia e in Europa, che ribaltò comportamenti convenzionali, come quello di barattare la riduzione degli orari di lavoro con aumenti salariali. Seguirono contratti che sancirono il diritto alla salute in fabbrica, quello a svolgere inchieste aziendali sulla nocività, la facoltà di tenere riunioni sindacali nei luoghi di lavoro, l'allargamento degli spazi per la contrattazione decentrata, il diritto all'informazione. È l’inizio dell’affermazione di quella che Trentin definì più tardi “la cultura dei diritti del lavoratore in quanto persona”, la quale si coniugò con nuove forme di rappresentanza collettiva nei luoghi di lavoro.

Proprio l’istituzione dei consigli dei delegati al posto delle burocratizzate commissioni interne rappresentò uno dei punti più importanti di quella stagione di lotte. Il gruppo dirigente della Fiom si fece sostenitore di questi istituti, pur non sottovalutando i pericoli da un lato di derive estremistiche e dall'altro di involuzioni corporative. Nel ripercorrere queste vicende, Trentin porrà in evidenza come le divisioni tra sindacati e le stesse piattaforme rivendicative, malgrado lo sforzo nei confronti della contrattazione articolata, segnassero un ritardo evidente rispetto alla dinamica degli eventi. Questo ritardo però non inficiò il ruolo del sindacato in quella vertenza che fu sempre di assoluto protagonismo.

Pino Salerno, ufficio studi e programma della Flc Cgil nazionale