Sedici settembre 1995: la nave Concorde entra nel porto di Gioia Tauro e attracca in banchina con le sue 18 mila tonnellate di stazza. L’intuizione di Angelo Ravano (fondatore di Contship) s’era alla fine realizzata: trasformare il vecchio porto inutilizzato in un hub al servizio delle grandi navi portacontainer e al centro delle grandi rotte del commercio globale interoceanico. Un porto aperto “in faccia” al mondo – capace di far risparmiare diverse giornate di navigazione alle grandi navi cargo – e, alle spalle, una piana ricca di spazi incontaminati, aree enormi adatte per logistica e intermodalità che attendevano solo di essere riempite da capannoni industriali per far sì che la ricchezza che arrivava via mare non si limitasse solo a toccare le coste calabresi per essere rispedita altrove con i feeder, ma portasse anche un po’ di benessere e lavoro in una terra che ne ha da sempre un disperato bisogno.

È proprio questa seconda aspettativa, però, che non si è mai realizzata: il porto di Gioia Tauro è fatalmente rimasto un porto di transhipment (il 95 per cento dei container che arrivano ripartono senza essere neanche aperti), le ricchezze trasportate dalle navi lo toccano e poi riprendono il mare per altri lidi, anche se non va trascurato il fatto che nei suoi anni migliori da solo ha generato il 50 per cento del Pil calabrese. Chi scrive ha iniziato a occuparsi di lavoro e sindacato più o meno quando il porto è nato e periodicamente ha letto – e scritto – di grandi opportunità sempre sulla soglia di essere realizzate, ma mai davvero perseguite. A un certo punto, poi, è arrivata anche la grande crisi, che ha messo in difficoltà persino il transhipment – con un calo sostanzioso dei container movimentati e tanti posti di lavoro persi – e poi il contenzioso tra i gestori delle banchine, i colossi Contship e Msc. Un contenzioso che si è risolto a fine marzo con il divorzio fra le due società, prima socie alla pari. La Til, una controllata di Msc, che del porto è anche armatore, ha acquistato tutte le quote dell'ex partner e il completo controllo sul transhipment.

Le ricchezze trasportate dalle navi toccano il porto ma poi ripartono e non lasciano nulla al territorio

Contemporaneamente è stata istituita la Zes (la Zona economica speciale) in cui rientra interamente anche tutto il retroporto di Gioia, con la possibilità dunque che con specifiche agevolazioni possano finalmente partire attività industriali legate al territorio e capaci di sfruttare le potenzialità logistiche – in entrata e in uscita – del porto. Saranno i prossimi mesi a dire se la svolta c’è stata, però sicuramente qualcosa si muove.

Il porto dentro al porto
Percorrere in auto il perimetro di strade intorno al porto – che si snoda come un serpente tra la campagna e il mare – e poi entrarci dentro, vedere da prospettive diverse i suoi immensi bacini, passare sotto le gru, enormi polipi che catturano i container e li scaricano nei piazzali, è un’esperienza molto interessante per chi non è abituato a vedere un hub a vocazione interamente industriale come questo. E se anche in questo momento non ci sono gru o carrelli al lavoro, è facile immaginare la materialità del lavoro umano che qui si svolge e la grande preparazione professionale che queste manovre necessarie per muovere in sicurezza e in tempi rapidi container colossali richiedono. Tutti aspetti che conosce molto bene Mimmo Laganà, oggi segretario generale della Filt di Gioia Tauro, ma che qui ha lavorato per tanti anni come gruista.

Laganà ricorda molto bene il periodo più duro: “Nel 2010 – racconta – la movimentazione dei container è crollata: si è passati da 3.400.000 a poco più di 2 milioni di Teus l’anno (il Teu è la misura standard di volume dei container e corrisponde a circa 40 metri cubi, ndr). L’arrivo di Msc come concessionario unico delle banchine rappresenta sicuramente un'occasione importante per poter rilanciare il porto. I volumi di movimentazione sono ricominciati a salire: da 25.000 Teus la settimana siamo già arrivati a 40.000 Teus. Msc ha promesso di investire anche in macchinari e dotazioni, con nuove gru e otto nuovi carrelli sono già arrivati. Inoltre sono iniziati i lavori per sistemare il manto del piazzale delle banchine”.

Con l'arrivo di Msc i volumi movimentati sono saliti da 25.000 e 40.000 Teus la settimana

Avere più lavoro è necessario anche per poter reimpiegare tutta la manodopera disponibile e colmare una ferita che ancora si fa sentire: nel 2017 il gruppo Contship aveva dichiarato 442 esuberi poi scesi a 377. Nel frattempo quasi tutti i lavoratori sono rientrati a seguito di diversi pronunciamenti del Tribunale di Palmi. Tra questi Angelo Scopelliti, “piazzalista” dal 1998, che sembra ottimista sul futuro: “Qualche decina di lavoratori sono ancora in attesa di essere reintegrati, ma Msc ha dichiarato di voler chiudere i contenziosi aperti. Non solo. L’azienda ha anche paventato la possibilità di nuove assunzioni, necessarie se l’obiettivo è, come trapela, quello di superare 4.000.000 di Teus annuali. È anche molto importante il fatto che sono stati ordinati nuovi telai e nuove gabbie di rizzaggio. Mi pare che il cambio di gestione stia già portando dei risultati che sono sotto gli occhi di tutti”.

Comincia a vedere la luce in fondo al tunnel anche Andrea Agostinelli, commissario straordinario dell’Autorità portuale, un toscano che ha sposato con passione una mission che qualche anno fa sembrava davvero, se non impossibile, molto ardua. “Certamente oggi le prospettive sono più ottimistiche – racconta –. Il nuovo termalista ha già dato impulso a investimenti per 97 milioni di euro, oltre naturalmente a quanto sborsato per l’acquisto delle quote da Contship, e anche accollandosi le precedenti perdite di esercizio, compresi i costi delle sentenze di reintegro per i lavoratori licenziati e la chiusura dei contenziosi ancora aperti. Credo che la ripresa andrà finalmente a regime nel 2020, ma già ora l’armatore ha spostato 60 navi di ultimissima generazione che toccheranno Gioia Tauro: questo porto può infatti ormeggiare imbarcazioni che arrivano a trasportare fino a 19.000 container”. Agostinelli ricorda anche che Msc impegnerà nei prossimi anni oltre 3 milioni di euro per la cura e manutenzione dei fondali e però aggiunge, affermazione molto significativa, che “un terminal importante deve anche ospitare delle attività collaterali che funzionano. Ipotizziamo pertanto il possibile insediamento di un’azienda di fabbricazione e riparazione dei container e, soprattutto, un bacino di carenaggio: siamo alla fase esecutiva di realizzazione con la manifestazione di interesse pubblico”.

Prevedere un attracco a Gioia Tauro equivale a un giorno in  meno di navigazione rispetto alle soste in tutti i porti italiani del Nord Tirreno

Nella competitività globale il porto di Gioia ha vantaggi non indifferenti: la sua posizione baricentrica sulla rotta Suez-Gibilterra lo pone al centro di una delle rotte commerciali più trafficate del globo; prevedere un attracco a Gioia Tauro equivale a un giorno in  meno di navigazione rispetto alle soste in tutti i porti italiani del Nord Tirreno e, addirittura, sette in meno rispetto ai porti del Nord Europa. Già oggi approdano qui navi madri che collegano 120 porti nel mondo e 66 nel solo bacino del Mediterraneo. Anche i dati tecnici sono invidiabili. Solo per citarne alcuni: la superficie complessiva del porto è di 620 ettari (440 di terminal e 180 di specchio acqueo), il bacino di evoluzione ha un diametro di 750 metri e il fondale massimo è il più profondo d’Italia: ben 18 metri e può pertanto accogliere le navi più grandi che solcano i mari.

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Tuttavia, riprende Laganà, bisogna continuare a investire: “Altrimenti ad avvantaggiarsi di una perdita di appeal non saranno altri porti italiani, ma quelli maghrebini del Nord Africa, che hanno un costo del lavoro molto più basso, sebbene assai inferiore per qualità a quello dei nostri addetti”.

Fuori dal porto (ma non troppo)
Ma in queste terre in cui i giovani non trovano lavoro e si spostano, in cui la ’ndrangheta fa sentire la sua morsa e le aree interne si spopolano, è chiaro che il porto per portare vantaggi all’economia della Calabria e del Sud d’Italia non può limitarsi alla toccata e fuga del transhipment: se è dunque importante investire nei servizi marittimi, questo ormai non basta più. Il porto deve cominciare a guardare anche fuori. Ne è assolutamente convinto Andrea Tripodi, sindaco di San Ferdinando, sul cui territorio ricade un pezzo dell’area portuale. Tripodi, rieletto nel 2016 dopo due anni di commissariamento per mafia, è stato già primo cittadino per due consiliature negli anni novanta ed era in carica quando il porto nacque. “Eravamo pieni di speranza, pensavamo che questo avvenimento potesse cambiare le sorti della Calabria – ci racconta nel suo ufficio –. Fu grande perciò la delusione quando prevalse la scelta esclusiva del transhipment. Era la dimostrazione che ancora una volta il Sud veniva considerato come una pura dimensione territoriale dove poter collocare obiettivi nazionali che nulla avevano a che fare però con lo sviluppo della Calabria”.

Per il primo cittadino “era chiaro a tutti che il transhipment avrebbe sì assicurato una certa attività produttiva, ma avrebbe sviluppato sinergie molto deboli con il territorio. Nessuno si è preoccupato di quello che sarebbe potuto accadere: non dimentichiamo che il porto di Gioia Tauro è diventato negli anni anche la porta di ingresso di quantità cospicue di droga, con tutti i guasti conseguenti di un’economia dopata e gli effetti sulle relazioni umane e sociali che mettono in moto fenomeni di questo tipo”.

Occorre ripensare il territorio, l’intera Piana, in un’ottica di sviluppo complessivo

Per Tripodi, professore di lettere in pensione, poeta per passione e sempre assai attento ai fattori umani dello sviluppo (nella sua giurisdizione cade anche la tendopoli di San Ferdinando, con le sue storie di sradicamento e dolore) la novità di Msc va accolta con soddisfazione, “anche se sembrerebbe che voglia continuare solo col transhipment. Insisto: se vogliamo sviluppo, bisogna andare in una direzione di polifunzionalità del porto e proprio per questo investire sulle infrastrutture necessarie. Occorre pensare il territorio, l’intera Piana in un’ottica complessiva, tema su cui abbiamo sollecitato spesso il presidente della Regione. Serve un modello autopropulsivo di sviluppo legato al porto e insieme alle risorse della nostra terra: è quello che proponiamo dal 1994, ma la direzione scelta è stata un’altra”.

La scommessa dello sviluppo industriale
E il risultato di queste mancate scelte è evidente. Alle spalle dello scalo di Gioia Tauro si apre un’immensa zona retroportuale completamente abbandonata a se stessa. A costeggiarla con la macchina lo spettacolo è desolante: terreni riarsi dal sole, capannoni lasciati morire al vento, rottami arrugginiti, resti di un passato anche importante (come la sede storica della gloriosa Isotta Fraschini) che però ti accorgi non avere o non aver avuto nessun legame con il porto, come per esempio una fabbrica di occhiali che è tra le poche attività ancora in vita. Insieme al porto, sono ben mille gli ettari di terreni disponibili e su cui attrarre investimenti importanti di aziende, magari utilizzando sgravi fiscali, sostegni finanziari e agevolazioni anche per locazioni di immobili e terreni, previste dalla Zes, che però, formalmente operativa, è nei fatti ancora ferma ai box.  

Sono temi, questi, su cui insiste da tempo anche Celeste Logiacco, infaticabile giovane segretaria generale della Camera del lavoro di Gioia Tauro: “Il dramma che sta vivendo ormai da anni il territorio della Piana ha molteplici aspetti: politici, culturali, economici, imprenditoriali e di legalità. Ciò che prevale è la percezione dell’abbandono e del disimpegno della politica sia regionale che nazionale, distratta e lontana dai gravi problemi che caratterizzano questo territorio dove giorno dopo giorno si perde qualcosa”: questo il suo allarme accorato.

Servono investimenti e un progetto di riconversione produttiva affinché il porto diventi la piattaforma logistica del Mediterraneo

Per questo, aggiunge, “il governo nazionale e regionale devono cominciare a comprendere l’importanza strategica che questo porto, snodo chiave nel cuore del Mediterraneo e del Mezzogiorno, ha per l’intero Paese mantenendo gli impegni sugli investimenti già presi (Zes, gateway ferroviario, terminato ma non ancora attivo, e bacino di carenaggio) ancora disattesi o in fase di pesanti ritardi sulla loro realizzazione”.

Quello che occorre fare è evidente, non c’è nulla da inventare, serve – ma non è poco – una precisa volontà politica: occorrono investimenti seri e concreti e un progetto di riconversione produttiva affinché il porto diventi la piattaforma logistica del Mediterraneo favorendo lo sviluppo dell’area industriale circostante. Ancor di più quindi, in un territorio prettamente agricolo, il rilancio del porto riveste un’importanza fondamentale anche per lo sviluppo di un’agroindustria basata sulla qualità e la valorizzazione delle eccellenze della produzione locale, su un rapporto diretto tra produzione, trasformazione sul posto e vendita affrontando al tempo stesso la questione dell’accoglienza dei lavoratori migranti impiegati principalmente in agricoltura”.

Se la scommessa è quella di integrare i territori, alcune recenti decisioni del ministero dei Trasporti lasciano però perplessi. Il ministro Toninelli ha deciso infatti la nascita della sedicesima Autorità di sistema portuale dello Stretto che dovrebbe governare i porti di Messina, Milazzo, Reggio Calabria e Villa S. Giovanni lasciando autonomo quello di Gioia Tauro. Il giudizio della Cgil su questa operazione è drastico: “Un accorpamento di questo tipo indebolisce il sistema portuale calabrese danneggiando ancor di più l’intero e già debole sistema produttivo che ruota attorno al porto di Gioia Tauro”, commenta la sindacalista.

Il nuovo scintillante gate intermodale ferroviario realizzato da Contship è pronto ma inutilizzato

Insomma, tante possibilità, tanto da fare, ma anche tante incertezze e un senso di incompiuto che, parlando con le persone e girando per il territorio, ti resta appiccicato dentro. L’emblema di tutte queste contraddizioni potrebbe essere lo scintillante gate ferroviario fatto costruire da Contship: un terminal intermodale che dovrebbe garantire l’integrazione con l’entroterra e il passaggio delle merci da mare a tratte terrestri regionali, nazionali e internazionali, dotato di ben 67 aste ferroviarie lunghe 750 metri, con un’area di 42 ettari per operazione di stoccaggio e movimentazione. Il gate è pulito e ben recintato, ma l’erba avanza e ha già coperto una parte dei binari: in Italia, come si sa, il confine tra opera di modernizzazione e cattedrale nel deserto è assai labile.