NeoSocialismo” (Ediesse, 2018) è un bel libro di Luigi Agostini, persona ben nota nel mondo sindacale italiano, essendo stato in passato segretario nazionale della Fiom, segretario regionale della Cgil del Veneto, segretario confederale della Cgil nazionale e molte altre cose ancora. L’opera di Agostini (attualmente responsabile dell’area ricerca della Fondazione Isscon) prende le mosse da due momenti, distanti e consequenziali, che hanno acuito una frattura di natura geo-politica iniziata lo scorso secolo. È il dicembre 1989 quando la cortina di ferro che per decenni aveva visto frapposti due blocchi dell’Europa e del mondo si inizia a sbriciolare sotto le spinte indipendentiste di molti popoli dell’Est. Tale evento rappresenta la fine di uno dei più grandi esperimenti politico-sociali nella storia dell’uomo: il socialismo sovietico.

Diciotto anni più tardi, nel 2007, il fallimento di un’oscura – almeno per noi italiani – banca d’affari specializzata nella concessione di mutui per l’acquisto di case, segna un’ondata di crisi i cui venti si propagano in mezzo mondo. Effetti pesanti che ancora oggi imperversano nella società, nel nostro lavoro, nella nostra esistenza, tra le classi più deboli: è la crisi del capitalismo moderno. Una crisi derivata dalla finanziarizzazione dell’economia e dalla crescente rincorsa alla massimizzazione del profitto, che, come disse Lawrence McDonald, rende quasi immortali, onnipotenti. È il crollo dell’economia dei derivati tossici, malati, di cui non importava a nessuno, perché a Wall Street “i soldi chiamano i soldi”.

Il presente, per Agostini, è permeato dalla luce accecante di questi due momenti storici. Ed è in questo caos che la sinistra cede terreno alla destra. Ma non tutto è perduto: ci sono ancora margini di manovra per lanciare una controffensiva. Come afferma l’autore, “la sinistra odierna non può e non deve rispondere solamente con l’idea di uno spazio aperto e cosmopolita, ma deve cercare una riconquista dello spazio europeo con la forza dell’ideologia”.

Nelle pagine di questo volume si afferma con forza l’esigenza di un ripensamento del ruolo della sinistra, non soltanto in un’ottica meramente politica, ma anche e soprattutto culturale e sociale. Per colmare questa lacuna ideologica bisogna rivisitare la teoria prima ancora che la pratica, per tornare in campo con soluzioni e idee più coerenti con i nostri tempi. Nelle parole di Agostini trapela un po’ questo, l’esigenza di una rivisitazione, di una chiamata alle armi, di una presa di coscienza volta a sovvertire l’andamento della sinistra attuale e ridurre quello iato tra sinistra e popolo che ormai da troppi anni va avanti e che, con la crisi economica, si mostra in tutta la sua potenza tellurica: bisogna lottare, ma con un nuovo punto di vista di sistema, al passo con i nostri tempi.

L’autore dedica un’ampia parte della sua trattazione al concetto di lavoro, compiendo una disamina circa i mutamenti sostanziali, sia da un punto di visto storico che culturale. Agostini parte da una premessa importante, che permea gran parte della sua riflessione; la convinzione di fondo è che rimane aperto, e insoluto come mai prima, il problema dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Il capitalismo attuale è figlio della rete Internet. Finanza, produzione, distribuzione, consumo, stili di vita: la rete è il dio Pan che plasma ogni singolo aspetto della nostra esistenza e attua una metamorfosi sia a livello sociale che culturale. Nell’era odierna calcolo e tempo sono le due risorse che ridefiniscono le nuove gerarchie; è l’era del trionfo dei giganti del silicio, dell’informazione e dell’algoritmo, ma anche quella di nuove forme di schiavismo della civiltà umana.

Già nel 1859 Marx aveva profetizzato che il centro della questione si sarebbe “spostato dalla problematica del salariato a chi detiene il sapere”, una frase che oggi ha il sapore di un terribile monito. Ma se nel secolo scorso il lavoratore conservava una minima dignità nell’attività lavorativa, l’avvento del digitale porta a una quasi completa erosione di questo aspetto, perché come afferma Agostini, “se è vero che le macchine consentono all’uomo di dedicarsi selettivamente all’attività poietica del lavoro, è anche vero che sono in grado di estendere al cervello il dominio che Taylor puntava a estendere sui corpi”. L’algoritmo è un surrogato dell’ufficio tempi e metodi della fabbrica, che con il cottimo rende i lavoratori sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi: è la neo-taylorizzazione del lavoro moderno, che pur rende schiavi come all’inizio del Novecento. I poteri occulti e i messaggi subliminali che indirizzavano i gusti e le tendenze dell’uomo sono un retaggio del passato; i big data sono diventati la spada di Damocle che plasma le opinioni pulviscolari e consentono di costruire significati nell’immaginario collettivo.

Sono gli utenti che – in un circolo vizioso – alimentano la rete in un processo senza fine, e questo perché l’algoritmo genera la fascinazione di una potenza ai limiti della magia. Ne sa qualcosa il patron di Amazon, una delle sette sorelle del silicio, i cui lavoratori, relegati ai livelli più infimi del processo di creazione del valore, sono diventati autonomi, costretti a inseguire una perenne massimizzazione del ciclo produttivo, e a turni di lavoro massacranti per tenere alto il nome di quella che dovrebbe essere “l’azienda più attenta alla soddisfazione al consumatore”. E che dire di Zara, H&M e tante altre che grazie ai big data possono sfornare analisi predittive e sapere con estrema accuratezza quali capi produrre e quali no? “Timeo danos et dona ferentes”, avrebbero detto i latini: queste nuove tecnologie demistificano la realtà, perché ci danno l’impressione di essere liberi, ma è una libertà fallace, uno strumento di controllo delle relazioni sociali, del nostro modo di lavorare, un modello a metà tra l’esperienza benthamiana e quella orwelliana.

In questo contesto così complesso il lavoro muta la sua essenza e assume nuovi significati: un lavoro che nel corso degli anni è sempre più avulso e spogliato del suo valore. Un lavoro che, come affermava Luciano Gallino (“Il lavoro non è una merce”, Laterza, 2007), è divenuto una merce che viene venduta al migliore offerente. La stessa categorizzazione del lavoro – elemento di straordinaria importanza nelle lotte di classe – va lentamente a scemare, soggiogata dalla potenza di calcolo e dal capitalismo informativo. Una frattura che risale alla parcellizzazione delle mansioni tanto agognata da Taylor, che spianò la strada alla divisione del lavoro fordista e che oggi, nell’era dell’automazione e del dataismo, mira a rendere gli uomini schiavi delle macchine stesse e il prodotto non più output del lavoro, ma di colui che detiene i capitali necessari a gestire la fabbrica.

Il digitale in questo ha terreno fertile; è l’artefice che ha reso insopportabile il sistema egualitario sovietico del secolo scorso, perché, come afferma Agostini in un passaggio del libro, “ha rotto gli argini che costringevano a essere quelli che eravamo perché nati in quel posto”, facendo emergere uno spasmodico desiderio di individualità che non ha eguali nella storia. Un processo che avanza al galoppo anche nella Cina comunista, grazie al super-controllo attuato su Internet, e-mail, social network. La verità è che si è creato un divario incolmabile tra la sinistra e il periodo storico attuale: la prima fa sempre più fatica a decifrare il secondo. In un contesto come quello appena descritto, sembra tuttavia che qualcosa riesca a muoversi. Il vento, a quanto pare, inizia a girare anche per i giganti immortali dell’algoritmo: cresce l’opinione pubblica e si allarga la gamma dei soggetti sociali, come associazioni o istituzioni di garanzia, che rivendicano una propria autonomia delle identità.

Lo scandalo di Cambridge Analitica e lo sciopero dei lavoratori di Amazon a Piacenza sono solo frammenti di un movimento di protesta dai connotati più ampi ed è in questo che la sinistra – a detta dell’autore del libro – deve ripartire. Non basterà, tuttavia, rivendicare che gli algoritmi siano condivisi e trasparenti, ma bisognerà spingere affinché si crei una potestà pubblica sulle stesse attività di ricerca, riconoscendo che ogni ricerca e utilizzo di dati sia esso stesso di dominio pubblico garantito, alla stessa stregua dei beni comuni, “se vogliamo creare delle forme partecipative dove gli individui non siano più un’azione di consumo di quanti altri decidono di decidere”.

Le tecnologie sono come un Giano bifronte: possono essere foriere di autonomia, ma in un certo qual modo anche di schiavitù, e bisogna essere pronti a questa sfida per non finire sotto la valanga. Da qui, avvisa Agostini, bisogna ripartire per poter elaborare una strategia che ci permetta di estendere nuove forme di garanzie e di protezione ai sottomessi delle nuove gerarchie del capitalismo delle piattaforme, ed è in questa fase che può prendere piede un nuovo Rinascimento della sinistra. Perché non possiamo lasciare che una sparuta minoranza di enti privati e aziende controllino il buono e il cattivo tempo della società odierna: l’unico deterrente per frenare l’ascesa del Grande Fratello risultano essere i soggetti collettivi in grado di riportare la potenza di calcolo sotto l’egida della collettività.

Alla luce di questo, bisognerà attuare un nuovo riformismo del sindacato, comprendente sia una rinnovata strategia contrattuale che una classificazione professionale, perché le organizzazioni di rappresentanza non possono più ragionare con i meccanismi del passato e rimanere prigioniere del loro ieri, ma devono evolvere per fronteggiare un’innovazione epocale come quella dell’algoritmo e per ridare un valore al lavoro e la dignità che compete all’essere umano.