Nel Mezzogiorno vive solo un terzo delle famiglie italiane, ma vi si concentra oltre la metà di quelle con consumi al di sotto della media italiana. La tabella che segue ci consente di fare due ulteriori considerazioni. In primo luogo, nel Mezzogiorno l’incidenza della povertà (cioè la diffusione della povertà all’interno di quella specifica tipologia familiare) è sistematicamente più elevata sia rispetto al Centro-Nord che alla media italiana, sia che si tratti di coppie con figli, famiglie monogenitore o anziani che vivono soli o in coppia. In secondo luogo, al Nord come al Sud sono sempre le famiglie con figli a presentare tassi di diffusione della povertà più alti.

Ciò significa che non siamo in presenza di due distinti modelli di povertà, come si è talvolta sostenuto, caratterizzati rispettivamente al Sud da una maggiore esposizione al rischio di povertà di anziani e madri sole e al Nord da famiglie numerose con figli, ma di un modello con caratteristiche comuni in tutto il Paese (e sostanzialmente simili a quelle di altri paesi del Mediterraneo), che si manifesta in maniera più accentuata nel Mezzogiorno a causa dell’intreccio di situazioni strutturali di svantaggio economico delle regioni interessate e di caratteristiche socio-demografiche delle famiglie residenti (queste ultime fortemente legate alle prime).

Non solo. Negli anni cosiddetti della crisi, ossia il decennio 2008-2017, si è verificato un altro fenomeno, vale a dire un forte calo dell’occupazione giovanile, sia nel Mezzogiorno che al Centro-Nord; anzi, con una più forte accentuazione proprio nelle aree più ricche del Paese, dove si partiva da livelli più alti. La conseguenza è che il tasso di occupazione giovanile, che tiene conto anche dei contratti a termine, sia nel Mezzogiorno che nel Centro-Nord è significativamente più basso di quello adulto (rispettivamente 28,5% e 48,1%, a fronte del 52,5% e del 73,3 dei lavoratori con più di 34 anni), segnalando l’esistenza di un comune fattore di espulsione dei giovani dall’occupazione.

Il calo dell’occupazione giovanile è correlato ai processi di declino demografico e di intensificazione delle partenze verso l’estero, che stanno riguardando anche in questo caso tutte le aree del Paese. E come è noto si parte più dalle regioni centro-settentrionali che dal Mezzogiorno (nel periodo 2012-2017 più della metà dell’emigrazione netta registrata riguarda le prime con una media annua di 33 mila partenze nette). Potremmo andare avanti con molti altri esempi, tratti da studi e ricerche di sicura affidabilità. Ma i dati che abbiamo sin qui commentato sono già di per sé sufficienti per trarre alcune implicazioni di politica sociale ed economica. La prima implicazione riguarda la necessità di giungere alla definizione di un quadro di riferimento comune, di standard condivisi e vincolanti, in tema di contrasto ai fenomeni richiamati. Tale necessità trova un suo valido fondamento nella natura stessa dei problemi che si intende affrontare, che hanno carattere unitario, pur presentandosi con differenti livelli di intensità nelle diverse aree del Paese.

L’orientamento verso un’immunizzazione tendente a separare le regioni ricche, sottinteso virtuose, da quelle povere, quindi dissennate, equivale a pensare di poter guarire da una malattia tagliandosi un arto. In particolare per ciò che riguarda i fenomeni citati, la garanzia di condizioni di base perché una vita diventi “degna di essere vissuta”, per usare un’espressione cara a Amartya Sen, è questione di rilevanza tale da non poter essere soltanto prospettata come possibilità legata alla ricchezza della regione di residenza, ma deve essere assicurata nel quadro di un sistema di cittadinanza nazionale, che non riproduca diritti differenziati territorialmente. In tal caso infatti non sono in gioco servizi qualsiasi, ma tutte le prestazioni statali (a partire dalla sanità e dall’istruzione).

Nel caso si affermasse la concezione di un regionalismo differenziato, indifferente alle esigenze di perequazione territoriale e di generalizzazione di accettabili standard nell’offerta di servizi, si perpetuerebbe quel “federalismo senza princìpi” che la commissione Onofri già nel 1997 additava come principale problema da affrontare nel quadro della riforma della spesa sociale. Cambiare la scala delle politiche sociali non è mai un atto neutrale. Un conto è la sussidiarietà verticale, che avvicina i servizi ai cittadini, un altro conto è la disparità delle dotazioni di risorse che si verifica quando i meccanismi redistributivi previsti dalla nostra Costituzione sono assenti.

Abbiamo sin qui sottolineato come molti fenomeni che si attribuiscono al solo Mezzogiorno hanno in realtà un carattere nazionale. Ma è nel Mezzogiorno che la loro grandezza e persistenza nel tempo stanno determinando processi di desertificazione economica e sociale tali da far temere un collasso della struttura sociale molto simile a quello osservato negli anni ottanta del secolo scorso da William Julius Wilson nelle inner cities di alcune città americane. Per Wilson la perdita di posti di lavoro indotta dalla deindustrializzazione e dalla delocalizzazione industriale e la concentrazione della povertà oltre la soglia del 40% agiscono da fattore di accelerazione dei processi di impoverimento e di disgregazione sociale.

Chi nasce in un “iperghetto”, vale a dire in un ghetto con una composizione sociale fortemente modificata rispetto al ghetto comunitario, ha minori probabilità di uscire dalla disoccupazione e dal contesto segregante del luogo in cui vive rispetto a chi, nato in un altro quartiere con una composizione sociale più eterogenea, può contare su un capitale sociale sia di tipo bridging, vale a dire su reti sociali che permettono il contatto tra ambienti socio-economici e culturali diversi, sia di tipo linking cioè su relazioni con soggetti in posizione di potere all’interno di specifiche organizzazioni cruciali nel fornire accesso a servizi, occupazioni e risorse.

L’esperienza statunitense è istruttiva anche sotto un altro profilo. Lo spopolamento dei centri cittadini e la formazione di concentrazioni urbane di gruppi a basso reddito non sono stati soltanto il prodotto dalla deindustrializzazione. Molti programmi speciali contro la povertà, di edilizia abitativa, di formazione-lavoro, di sviluppo delle comunità sono stati cancellati o ridimensionati dalle amministrazioni repubblicane e democratiche alternatesi al governo dopo l’elezione di Ronald Reagan nel 1981 e il crollo della vecchia coalizione democratica che aveva dominato la politica del dopoguerra con i programmi di welfare avviati dal New Deal.

Questo intreccio perverso tra deindustrializzazione, declino delle politiche sociali, spopolamento e concentrazione di famiglie a basso reddito di cui hanno fatto esperienza le città americane può essere assunto come modello interpretativo anche in contesti in cui i livelli di segregazione su base etnica e razziale sono più modesti o pressoché inesistenti, come appunto quello del nostro Mezzogiorno. È lo stesso Wilson a sottolineare che il motore di tutto è la perdita di occasioni lavorative – appunto “When work disappears” – e il fatto che tutti quelli che possono abbandonare la nave del ghetto che affonda vanno via via determinando un processo di scrematura della struttura sociale, lasciando sul campo solo chi non ha alternative. La segregazione razziale è dunque solo un’aggravante della sindrome definita “effetto di concentrazione”, che nel caso del Sud può essere individuata piuttosto nel peso della criminalità organizzata.

A tutt’oggi nel Mezzogiorno, nonostante l’andamento opposto di povertà e disoccupazione, non si sono ancora manifestati effetti di desertificazione e disgregazione sociale di portata simile a quelli dell’iperghetto, in parte grazie al fatto che negli interstizi tra il retrenchment dello Stato sociale e il collasso delle reti familiari depauperate dall’emigrazione dei soggetti più provveduti e dotati di risorse, sono spuntate come fiori nel deserto, sia nella “polpa spolpata” delle aree urbane che nelle tradizionali “zone dell’osso”, interessanti iniziative di innovazione sociale, di specializzazione produttiva e recupero di tradizioni artigianali, pratiche di solidarietà comunitarie ed esperienze artistiche.

Nella sola città di Napoli sono state censite più di 40 iniziative di recupero di luoghi abbandonati di interesse culturale. Tra i casi più famosi vi sono quelli delle Catacombe di San Gennaro, della galleria Borbonica e dell’area Marina della Gaiola, ma vi sono anche esempi meno noti come il progetto Cela Napoli, che ha puntato alla riscoperta degli ipogei ellenistici e romani; l’acquedotto Augusteo, reso visitabile grazie all’impegno dell’associazione Vergini Sanità, e la Chiesa di Santa Maria della Misericordia ai Vergini, trasformata in un centro di arte contemporanea. Ci sarebbe da rallegrarsene, se non fosse che, al pari delle piante grasse che muoiono per lo sforzo della fioritura, anche queste energie rischiano di implodere se non opportunamente inserite in un contesto sociale ed economico diverso da quello attuale, trasformando il Mezzogiorno in un gigantesco iperghetto.

Enrica Morlicchio è docente di Sociologia economica presso l’Università di Napoli Federico II