Il testo che segue è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n. 2/2018 della Rivista delle Politiche Sociali. Questo è invece il link alla rubrica che Rassegna dedica alla stessa pubblicazione

La storia raccontata da Carlo Gnetti, presidente dell’Associazione volontari ospedalieri di Roma, testimonia un percorso dentro le istituzioni pubbliche che evidenzia tutti i limiti organizzativi e culturali ancora oggi diffusi nei servizi di salute mentale

Negli anni ottanta mio fratello viveva più o meno stabilmente assieme ad altri 14 pazienti nella comunità terapeutica di via S. Igino Papa a Primavalle. Dunque la sua era una condizione di relativo privilegio, se si pensa che dopo l’entrata in vigore della legge 180 le strutture territoriali alternative al manicomio erano pressoché inesistenti. Nel Nord Italia le cose andavano meglio e le sperimentazioni erano più avanzate, ma nel Lazio si era ancora all’anno zero, alle prese con le novità introdotte dalla legge 180 e dalla quasi contemporanea istituzione del Servizio sanitario nazionale (legge 833 del 1978). La vicenda di mio fratello, catapultato fuori dal S. Maria della Pietà per finire nell’unica struttura pubblica aperta nel Lazio a quell’epoca (1981), allora in grado di ospitare una quindicina di pazienti maschi e che solo più tardi sarebbe stata aperta alle donne, è molto emblematica da questo punto di vista.

La comunità terapeutica, lo dice il nome stesso, nasce per curare e reinserire i pazienti. E in effetti la comunità di Primavalle ha svolto egregiamente questa funzione, tanto da diventare un’eccellenza nel corso degli anni, oggetto di visite di équipe provenienti da tutto il mondo che volevano studiarne le modalità e i sistemi di cura. Nel periodo in cui mio fratello ha vissuto lì, ho visto nascere e svilupparsi molte iniziative interessanti, come i lavori affidati ai pazienti tramite cooperative di lavoro all’esterno o all’interno della comunità, riunioni allargate agli operatori e ai familiari, gite fuori porta e al mare, vacanze in luoghi di villeggiatura insieme agli operatori, magari un po’ fuori stagione per evitare contatti ravvicinati con gli ospiti “normali” degli alberghi, workshop, corsi di art therapy ecc.

Tutte queste attività hanno prodotto risultati eccellenti, tant’è vero che alcuni dei primi pazienti sono riusciti sia a integrarsi nella vita di un quartiere come Primavalle, estremamente ricettivo e disponibile nei confronti della comunità e dei suoi pazienti, sia a recuperare una vita accettabile, che li ha condotti presto o tardi alle dimissioni, magari “guidate” per periodi più o meno lunghi. Ciò ha comportato quasi automaticamente la necessità di garantire il turn over dei pazienti, e delle pazienti entrate nel frattempo. Era questa, del resto, la mission della comunità.

Il problema è sorto perché, trascorsi una quindicina d’anni, mio fratello e alcuni altri pazienti non avevano mostrato sostanziali progressi, anzi si erano in qualche modo “adagiati” e cronicizzati, trovando una dimensione di vita all’interno della comunità, con la loro stanza e modesti comfort, ma senza prospettive di guarigione, o di recovery, come si usa dire oggi, cioè recupero di un livello accettabile di autonomia.

E così è arrivato il giorno in cui questo gruppo di pazienti ha dovuto lasciare la comunità per trasferirsi in una casa famiglia. Decisione che significava abbandonare un luogo sicuro e familiare, in tutti i sensi, per affrontare quello che si prospettava come un salto nel buio. A questo riguardo c’è un aspetto fondamentale che riguarda il rapporto tra famiglie e istituzioni che si occupano di disagio psichico. Talora, come nel caso della comunità di Primavalle – o almeno fino al momento in cui ne fu chiaro il carattere riabilitativo –, viene superato quel sottile confine che stabilisce le responsabilità reciproche delle famiglie e delle istituzioni nei confronti del paziente.

Secondo il mio punto di vista di allora, il nostro congiunto era stato in qualche modo “sradicato” dalla famiglia e preso in carico dalla comunità e dai suoi operatori, ai quali veniva affidata la responsabilità della sua intera vita. Era difficile, quindi, accettare il fatto che dovesse essere scaricato dalla comunità in cui aveva vissuto 15 anni, anche se la sua sorte sarebbe rimasta comunque affidata alla struttura sanitaria pubblica. Però le cose sono andate in un’altra direzione, verso la grande incognita della “responsabilizzazione” del paziente, e verso una maggiore condivisione e partecipazione economica delle famiglie. Forse tutto ciò aveva senso, ragionando a posteriori, ma allora era difficile accettare questa realtà.

Anche i passaggi successivi della vita di mio fratello toccano molte problematiche legate agli effetti prolungati nel tempo della legge 180. La casa famiglia a cui era stato assegnato dal Dipartimento salute mentale della Asl RME era troppo impegnativa per uno come lui. Doveva curare la sua stanza e la propria persona, contribuire alle spese comuni (nel suo caso grazie anche all’assegno di disabilità che gli era stato assegnato) e alla vita sociale con gli altri pazienti, intrattenere buoni rapporti con il vicinato per superare una preconcetta ostilità (lo “stigma” così duro a morire, specie quando i matti sono vicini di casa), e così via. Lui non poteva reggere il peso di queste responsabilità.

E difatti iniziò allora una netta involuzione, resa ancora più lacerante dalla continua ricerca di una clinica convenzionata o di una Residenza sanitaria assistenziale (Rsa) disposta ad accoglierlo: Villa Armonia, Villa Monica, Villa Mendicini, Colle Cesarano, Villa dei Fiori. Quando non erano strutture decentrate, come nel caso di Colle Cesarano, erano reparti di segregazione in cliniche private, come nel caso di Villa Monica e Villa dei Fiori (clinica di proprietà della famiglia Angelucci in predicato allora di trasformarsi in un centro di salute e benessere).

Villa Mendicini, prima del ricovero di mio fratello e di altri quattro pazienti maschi fuoriusciti dalla comunità o dalla casa famiglia, aveva ospitato solo donne ed era quindi impreparata all’impatto con la promiscuità. Villa Monica era una clinica diretta da un urologo, abituato a trattare pazienti anziani e inorridito di fronte alla dose da cavalli, così l’aveva definita, di psicofarmaci da somministrare ogni giorno a mio fratello, all’epoca ancora relativamente giovane. Quanto a Colle Cesarano, ospedale finito sotto osservazione per alcune morti sospette (ne ha parlato di recente Presa Diretta), i lunghi corridoi, le sale comuni, l’odore di disinfettante, le camere da 8 letti, le inferriate alle finestre, l’atmosfera che si respira, con urla, sospiri e richiesta ossessiva di soldi e sigarette, tutto riporta inesorabilmente al vecchio manicomio. Piccolo, decentrato, ma pur sempre manicomio.

Di passaggio in passaggio, noi familiari ci siamo accorti ben presto che qualcosa non funzionava nella catena di comando. La gestione di mio fratello era sempre affidata alla Asl, che tra l’altro aveva incaricato una dottoressa disponibile e solidale di seguirne le peripezie, ma dal punto di vista – diciamo così – logistico piuttosto che terapeutico. In breve, il suo peregrinare da una struttura all’altra, accompagnato solo dalla cartella clinica, assomigliava molto a un rimpallo di responsabilità, conclusosi con la morte prematura di mio fratello, nel 2009 a 59 anni di età, per un’improvvisa crisi epatica causata dall’accumulo di psicofarmaci nel corso degli anni. Affermazione difficile da comprovare in sede legale, ma che a noi familiari risultava evidente, dato che negli ultimi tempi gli effetti collaterali avevano preso il sopravvento fino a impedirgli quasi di deglutire.

La vicenda di mio fratello, dunque, rivela il tradimento di uno dei principi della legge 180, come riconosce colui che all’epoca ne aveva in mano le sorti in quanto direttore del Dipartimento salute mentale della Asl RME, lo psichiatra Gianfranco Palma: “Uno dei principali insegnamenti derivanti dal superamento dell’ospedale psichiatrico è la necessità di differenziare bisogni e particolarità di ogni storia, l’individualità di ogni persona, la specificità dei suoi limiti e dei suoi desideri”. Se queste erano condizioni essenziali nel processo di recovery, occorreva dare continuità temporale alla presa in carico di mio fratello, garantendo la permanenza di un riferimento unico a prescindere dalla struttura in cui era ricoverato. “Il mantenimento del filo continuo della storia di cura personalizzata del paziente – sostiene ancora Palma – è possibile solo se vi è continuità della relazione terapeutica con il paziente”. Condizione che in quel caso è mancata clamorosamente.