Una riflessione sulla natura e il ruolo dell’impresa, in particolare nel sindacato, non potrebbe essere di maggior importanza. La chiave proposta nell’articolo di Giuseppe Amari su Rassegna Sindacale dello scorso 10 luglio mi pare coraggiosa e innovativa rispetto al modo in cui il tema è stato prevalentemente affrontato nelle organizzazioni sindacali e politiche radicate nel mondo del lavoro. La sua è un’ampia “chiamata a raccolta” di idee classiche e contemporanee che potrebbero essere utilizzate per un ripensamento dei fondamenti.

Riprendo qui l’elaborazione sul ruolo della “terzietà” e della “democrazia”, che Amari cita dal mio libro “10 tesi sull'impresa. Contro i luoghi comuni dell'economia”, per esempio: "l'organizzazione dell'impresa non ha digerito la rivoluzione democratica avvenuta nella società e nel diritto nel corso del Novecento"; le istituzioni in una moderna democrazia costituzionale – sindacati e imprese incluse – dovrebbero essere “terze” rispetto alle parti costituenti, fondate su un contratto costituzionale di associazione, e dotate di una propria carta costituzionale (statutaria) che ne regola il funzionamento, soprattutto decisionale; perché  "è l'impresa come società a essere proprietaria dei mezzi di produzione, non i capitalisti piuttosto che i lavoratori".

Nelle categorie ottocentesche, e nella contrapposizione tra impresa “capitalista” e impresa “collettiva” o “socialista”, la terzietà dell’impresa era assente; ma mi pare che siamo fermi là, al pensiero di due secoli fa. Quanto all’organizzazione interna dell’impresa, inappropriatamente considerata di default “gerarchica”, come nota anche Amari riprendendo un libro di Riccardo Leoni, siamo fermi al modello, e al caso particolare, della grande impresa industriale del secolo scorso. Come potrebbero essere ripensati questi due fondamenti?

Terzietà e democrazia costituzionale

L’impresa è un insieme di cose di proprietà di qualcuno? Niente affatto. Questa idea (centrale, oltre che nei luoghi comuni, anche in parte della moderna teoria dei diritti di proprietà) è, paradossalmente, di derivazione marxiana: ci sono proprietari di mezzi di produzione che affittano lavoro su un mercato. Ma questo, appunto, è un mercato, non un’impresa. L’impresa è un’entità terza, una persona giuridica indipendente, costituita (se da più persone) con un contratto di società. E i contratti, precisamente parlando, non hanno “proprietari”, semmai istituiscono diritti (e obblighi) per i contraenti.

In effetti, la funzione principale per cui i contratti di società sono emersi, anche storicamente, soprattutto nella forma delle società di capitali, è piuttosto separare e proteggere l’entità impresa e i suoi asset dagli investitori (così come questi ultimi sono protetti dall’impresa attraverso la responsabilità limitata). Questa funzione dell’impresa, assai esplicita nella nozione di contratto di società e di responsabilità d’impresa nella Civil Law europea, è stata recentemente e ripetutamente sottolineata anche con riferimento alla Common Law, dove la nozione di contratto di società non esiste, da esperti di legge del calibro di Henry Hansmann e Margaret Blair.

L’argomento aggiuntivo che nelle mie tesi ho fornito è che il contratto di società e, più in generale, contratti che servano ad associare e dedicare risorse ad attività in modo continuativo (come la relazione di lavoro a tempo indeterminato), sono una risposta efficace all’incertezza, qualora  le attività e le contingenze da affrontare non siano prevedibili ex-ante; circostanza notoriamente responsabile dell’incompletezza e, oltre un certo limite, della failure dei contratti di scambio. Questa osservazione consente anche di precisare in che senso tutte le imprese, come tutte le società e le associazioni legalmente riconosciute, è efficace che abbiano una governance a impianto democratico o quantomeno “rappresentativo” (con diritti di voto direttamente in capo ai soci o proporzionali alle quote di investimento) e pone sotto luce diversa il tema della progettazione della governance stessa: essa dovrebbe essere impostata come disegno costituzionale di una democrazia, in cui ci si chiede quali attori, per quali ragioni, e in quale misura, hanno diritto a essere principal e/o quale tipo di voice avere.

Democrazia organizzativa interna e obiettivi

L’impresa è una “gerarchia”, i cui vertici massimizzano (e devono massimizzare) il profitto o il valore per gli azionisti? Non necessariamente sempre sì, e spesso necessariamente no. Sul piano empirico e comportamentale, è falso che gli investitori (inclusi quelli di capitale finanziario e a maggior ragione quelli di capitale umano) seguano sempre il profitto come guida; anche perché una gran guida esso non è: è un criterio vuoto di ipotesi su come agire; serve, o meglio serviva, come indicatore sufficiente quando le decisioni da prendere si limitavano a quanto produrre, di beni dati, con prezzi dati. Infatti, in larga parte, le imprese nuove e innovative sono guidate da obiettivi reali o progetti di azione che, in quanto validi, si presume producano anche buoni risultati economici (per quanto non si sappia precisamente quanti e quali).

Se parametri come il profitto o il valore per gli azionisti non sono di fatto un obiettivo generalizzato, forse dovrebbero esserlo? Nemmeno. Per brevità, esprimo qualche ragione con qualche aforisma: quando le condizioni sono incerte, il miglior modo di conseguire eccellenti risultati economici è non perseguirli (i risultati sono cosa assai diversa dagli obiettivi, ci insegnò Merton; e il successo è un risultato, non un obiettivo, ci ricamò sopra Flaubert); per avere risultati innovativi, obiettivi “differenziati e integrati” sono meglio di obiettivi “allineati” (dimostra la ricerca sul management dell’innovazione); la massimizzazione di qualcosa non è logicamente possibile se non si ha idea di dove possa stare il massimo (è un errore di logica, direbbe Simon); considerare il valore delle azioni una “statistica sufficiente” del valore dell’impresa (come dovrebbe, se fosse un prezzo efficiente, secondo von Hayek) è un errore di statistica… E poiché siamo partiti dalla gerarchia, e finiti in compagnia di Hayek, perché non ricordare che il governo gerarchico di grandi sistemi economici  si chiamava una volta economia di comando o pianificata, e si pensava fosse destinata all’inefficienza e alla perdita di controllo? Par che questo accada piuttosto spesso, e non mi riferisco a grandi Paesi, ma alle economie pianificate delle grandi imprese.

Dunque, un'altra categorizzazione di origine ottocentesca meriterebbe una revisione: che l’organizzazione “capitalistica della produzione” (la proprietà privata unilaterale dei mezzi di produzione da parte di chi investe capitale finanziario) e “l’organizzazione mercatistica degli scambi” siano necessariamente connessi in un “sistema” (capitalistico); con la conseguenza che l’alternativa starebbe nel capovolgimento di entrambi i termini: proprietà dei mezzi di produzione “dei lavoratori” e organizzazione centrale pianificata degli scambi. In realtà, entrambe le componenti di questa “alternativa ottocentesca” non sono inscindibili e in molti casi sono di per sé inadeguate: l’economia pianificata, pubblica e nazionale o privata e multinazionale che sia, per le ragioni che Hayek ci ha ben spiegato.

Ma anche l’alternativa di forme di “proprietà collettiva” dei conferenti lavoro, come le vicende e i dibattiti attorno alle imprese cooperative testimoniano, andrebbe aggiornata e arricchita, nella teoria e nella pratica, dalla protezione della terzietà dell’impresa anche nei confronti dei lavoratori, o di stakeholder altrimenti concepiti; nonché la possibilità, in un’economia della conoscenza, che gli stessi “lavoratori” siano anche “investitori di capitale (umano)” nell’impresa, con i diritti e i doveri che ne potrebbero conseguire.

Anna Grandori è professore ordinario di Organizzazione aziendale all’Università Bocconi di Milano