In questi giorni di accesa discussione sulla legge di bilancio e sul suo impatto sull’economia e i conti pubblici italiani, il tema del Mezzogiorno e delle sue condizioni di sviluppo è quasi assente, se non per una diffusa querelle sul reddito di cittadinanza. Una polemica che si articola essenzialmente tra accuse di assistenzialismo di massa a scopi elettorali e l’insistente esposizione dei dati sulla povertà diffusa, di cui il reddito di cittadinanza sarebbe panacea universale.

Il rapporto Svimez 2018 restituisce fortunatamente una fotografia molto più accurata della complessità di un Mezzogiorno in bilico tra i tenui segnali di miglioramento degli anni recenti e un nuovo, ulteriore, arretramento. Nell’ultimo triennio il Pil del Sud è cresciuto agli stessi ritmi del Centro-Nord, un dato certamente incoraggiante, per quanto sia stato perso il 10% rispetto al 2007. Svimez stima però che questa debole crescita possa tornare a contrarsi già nell’anno in corso, complice una frenata nei consumi privati delle famiglie.

Per quanto riguarda la componente degli investimenti, questa registra un segno positivo, ma è ancora una volta il lavoro a dare la misura di un dislivello inaccettabile: anche a fronte di un lieve incremento dell’occupazione, al Sud mancano ancora 300 mila occupati rispetto ai livelli pre-crisi, mentre prosegue la precarizzazione del mercato del lavoro, con la nuova occupazione che si compone esclusivamente di contratti a tempo determinato, con gli indeterminati che diminuiscono e con i part time involontari che riprendono a crescere.

A questo si aggiunge che anche le retribuzioni si divaricano, lo rileva Banca d’Italia nel recente report sulle economie regionali, aumentando al Nord tra l’1,5 e il 2% e riducendosi al Sud di quasi un punto e mezzo percentuale. Il prodotto del lavoro povero e precario lo mostra plasticamente ancora Svimez nel suo rapporto: a un aumento dell’occupazione, per la prima volta nella storia recente non corrisponde una riduzione della povertà.

Da questo punto di vista, le misure di sostegno al reddito, come il reddito di cittadinanza, su cui una parte del governo sta incentrando la propria iniziativa e alimentando cospicue aspettative, genereranno probabilmente un aumento dei consumi, ma rischiano di avere un impatto complessivo piuttosto limitato e di essere in parte controproducenti in assenza di interventi strutturali sull’occupazione e la crescita sostenibile. La grande domanda di cambiamento espressa dal Mezzogiorno, infatti, necessita di una risposta che tenga assieme i bisogni delle persone e l’esigenza di protezione nell’immediato, con la sfida di uno sviluppo di lungo periodo, e questa risposta non può che essere, in prima istanza, la creazione di lavoro.

Anche sul fronte degli investimenti privati, del resto, i segnali di vitalità che si riscontrano, naturalmente positivi, vanno inseriti in un contesto di complessiva fragilità del sistema produttivo meridionale. I lunghi anni di crisi economica hanno scavato un solco profondo nell’economia, il Sud ha perso dal 2007 al 2016 il 34% del valore aggiunto del settore edile, il 27,5% dell’industria in senso stretto, oltre l’8% in agricoltura e pesca e quasi il 5% nei servizi (elaborazioni Banca d’Italia). Certo, la crisi ha anche operato una selezione, consentendo alle imprese rimaste in piedi, le più solide, perfino di rafforzarsi, in qualche misura aiutate dai sostanziosi incentivi promossi nella scorsa legislatura.

Il problema rimane tuttavia che al netto delle “eccellenze”, la base produttiva del Mezzogiorno è troppo ristretta, per numero e dimensioni, oltre che abbastanza polarizzata su settori a basso valore aggiunto e con una distribuzione territoriale non uniforme, che include ampie zone di desertificazione industriale. Concorrono naturalmente alla debolezza del sistema altri elementi come la maggiore difficoltà di accesso al credito, i deficit infrastrutturali, i fenomeni di illegalità e la bassa qualità della pubblica amministrazione.

Di fatto, per dimensioni, specializzazione produttiva, livelli di capitalizzazione, il sistema produttivo meridionale non è strutturalmente in grado oggi di determinare da solo processi diffusi di innovazione e livelli sufficienti di occupazione. A guardare la legge di bilancio, il governo conferma con modifiche alcune delle misure introdotte da chi lo ha preceduto, come il sostegno all’autoimprenditorialità e le decontribuzioni per le assunzioni, estendendone il raggio di azione, e rifinanzia i contratti di sviluppo, ma sembra mancare, purtroppo, un’idea complessiva dello sviluppo del Mezzogiorno che vada oltre una politica di soli incentivi.

Grande assente, ieri come oggi, è il ruolo del pubblico: se la spesa corrente pro-capite della pubblica amministrazione si mantiene su livelli comparabili con il Centro-Nord, quella in conto capitale per il Sud continua a contrarsi e, per di più, le risorse per la coesione europee e nazionali vengono spese poco o non adeguatamente. Il Fondo sviluppo e coesione, rifinanziato in legge di bilancio con altri 4 miliardi nel triennio, ha una dotazione per l’attuale settennato di programmazione che ormai supera i 60 miliardi: in larga parte assegnati ai piani ministeriali e alle Regioni, ne risulta spesa a oggi una percentuale ridicola. Sui fondi europei, invece, ci affanniamo come di consueto in una rincorsa tardiva per non vederci disimpegnate le risorse, con le conseguenti ricadute rispetto alla qualità della spesa.

Il risultato è che, usando una formula efficace scelta dall’Ufficio di valutazione impatto del Senato nel suo recente documento di valutazione, dopo trent’anni di politiche di coesione “il Mezzogiorno con 20 milioni di abitanti è la più grande area depressa del continente”. La verità è che il Sud rischia realmente di restare incastrato in quella trappola del sottosviluppo che lo vede incapace di competere, per ragioni diverse, sia con le economie più avanzate del continente, incluso il nostro settentrione, sia d’altra parte con le regioni meno sviluppate dell’Est Europa, che crescono a buon ritmo anche grazie ai vantaggi relativi in termini di costi.

Eppure il rilancio degli investimenti pubblici sarebbe fondamentale come leva per lo sviluppo, soprattutto se iniettati nei territori depressi in misura sufficiente a indurre uno shock positivo; diversi studi recenti, inclusi due della Bce e del Fmi, propongono modelli in cui l’investimento pubblico è capace di generare moltiplicatori elevati, maggiori di quelli legati, per esempio, alla riduzione delle imposte. L’applicazione della clausola del 34% della spesa pubblica verso il Sud, che il governo si è impegnato ad applicare ed estendere a Rfi e Anas costituirebbe il presupposto fondamentale di un riequilibrio dell’ordinario, aprendo la strada a un’effettiva addizionalità delle risorse per la coesione.

Si tratterebbe poi di definire davvero delle priorità su cui concentrare la spesa, anche per evitare che venga dispersa in molteplici rivoli. E una di queste priorità, forse la prima, non può che essere rappresentata dalle infrastrutture sociali. Investire in scuola, sanità, servizi di cura e per l’infanzia non serve solo a garantire che i diritti sociali siano pienamente praticabili, significa anche agire su alcune delle più importanti precondizioni per lo sviluppo di un territorio. Secondo l’ultimo report Istat disponibile, la percentuale di bambini sotto i tre anni coperti dai servizi comunali o finanziati dai comuni è del 3,7% nel Sud, contro una media nazionale dell’11,6%, mentre ancora disperdiamo quasi il 20% degli studenti prima che abbiano concluso il proprio percorso scolastico.

Non solo. Sarebbe indispensabile colmare il divario di infrastrutture per la mobilità, anche e forse soprattutto tra le stesse regioni del Mezzogiorno, che sono collegate tra loro poco e male. Allo stesso modo, e senza scendere in dettagli, servono gli investimenti e l’indirizzo dello Stato per stimolare l’innovazione, agendo sulle università e sugli enti di ricerca, colmare i divari delle infrastrutture digitali e orientare il sistema produttivo verso settori a maggior valore aggiunto, accelerando per esempio la transizione energetica di tutto il sistema.

Detto questo, non possiamo nasconderci che qualsiasi politica di investimento pubblico si scontra sistematicamente con l’inefficienza amministrativa e l’inefficacia che il decentramento di funzioni e competenze ha prodotto nel nostro Paese. Forse ancora prima della mancanza di risorse, scontiamo l’incapacità di programmarle e utilizzarle in modo ottimale. Occorrerebbe intervenire con decisione sul rafforzamento della pubblica amministrazione in termini di personale e competenze e su un nuovo assetto di governance che dia coerenza alle scelte e agli indirizzi di sviluppo. Sul fronte della programmazione, il governo sta introducendo nuove strutture di sostegno, come Investitalia, una cabina di regia per gli investimenti e una sorta di centrale di progettazione delle opere pubbliche.

L’impianto disegnato pare però esposto a un rischio di burocratizzazione e di scarsissima autonomia dalla contingenza politica e non sembra rispondere all’esigenza di un nuovo strumento di promozione, coordinamento e indirizzo delle politiche di sviluppo, che la Cgil ha individuato e propone nella forma di una Agenzia per lo sviluppo industriale, una nuova Iri che si dovrebbe avere il coraggio di implementare senza il timore di improbabili ritorni al passato e liberandosi da quella sorta di fobia dell’intervento pubblico in economia che ha colpito, nostro malgrado, larga parte della classe politica italiana.

Jacopo Dionisio è responsabile Mezzogiorno Cgil nazionale