La vittoria di Jair Messia Bolsonaro ha confermato anche in Brasile la crisi dei partiti tradizionali e l’emergere di una nuova destra radicale, anti-sistema, spregiudicata nel linguaggio e nell’azione. Il nuovo presidente del più popolato e ricco paese dell’America Latina, che si insedierà il 1° gennaio prossimo, è un ex capitano dell’esercito, “estremo” sin dai suoi primi passi, tanto da subire varie denunce fino a essere espulso dall’esercito per aver organizzato una bisca clandestina.

È nello stato di Rio de Janeiro che Bolsonaro ha trovato la sede ideale per l’ascesa politica, sua e dei suoi due figli. Parlamentare nel Congresso Federale da sette legislature, è famoso per le sue dichiarazioni imbarazzanti e provocatorie: dalla difesa dei torturatori alla negazione della dittatura militare, fino a posizioni omofobiche che lo hanno portato a dichiarare che è “meglio avere un figlio morto che gay”. È interessante sottolineare come Bolsonaro abbia costruito la sua vittoria da vero outsider della destra, senza particolari padrini e appoggi dai poteri forti, e diventando gradualmente l’unico candidato in grado di sfidare l’ex-presidente Lula, se questi avesse avuto la possibilità di presentarsi alle elezioni e non fosse stato eliminato grazie a una persecuzione giudiziaria senza precedenti.

Bolsonaro ha vinto appropriandosi di un partito, il Psl (Partito social liberale), che fino a ieri non esisteva a livello nazionale. Il Psl è stato fondato da un industriale, Luciano Bitar dello stato di Pernambuco, circa 20 anni fa, con l’obiettivo di promuovere una politica liberale che avesse al centro la flax tax, ma senza alcuna ambizione di occupare un ruolo da protagonista a livello federale.

Il nuovo presidente del Brasile, uscito dal Psc (Partito social cristiano) ad inizio 2018, è passato così al Psl con un progetto tanto ambizioso quanto spregiudicato: correre per le presidenziali, una vera e propria scommessa, a cui nessuno avrebbe mai creduto e che invece è risultata vincente. Il terremoto politico seguito alle ultime elezioni ha coinvolto i partiti tradizionali della destra legata ai poteri forti egemonici del Brasile: il Psl è passato da 1 a 52 deputati alla Camera, mentre i partiti tradizionali di destra hanno subìto una sconfitta senza precedenti, dimezzando i propri consensi o addirittura riducendo la propria presenza nel Parlamento a percentuali irrisorie.

Bolsonaro è riuscito ad attirare l’attenzione dell’elettorato con un linguaggio diretto, radicale, politicamente scorretto – più da caserma che da Parlamento – e rispolverando i toni e gli argomenti dell’epoca delle dittature militari: la minaccia comunista, la necessità di garantire sicurezza e modernizzazione con l’ordine e la repressione. Non solo: ha attaccato le istituzioni che non si schierano con il suo progetto, minacciando chiunque possa essere d’intralcio e ripetendo a ogni occasione che la sua vittoria è frutto della volontà di Dio, a cui lui si appella con fedele devozione. Ogni atto di violenza, e in Brasile di certo non ne mancano, diventa carburante per la sua narrazione, piegando tutto alla necessità di dare mano libera alla polizia, all’esercito e alla difesa armata.

Il risultato delle elezioni sarebbe stato forse diverso se non ci fosse stato l’attentato contro di lui, perché quell’atto – il gesto di un folle che gli ha piantato un coltello nell’addome – ha pesantemente condizionato la campagna elettorale. L’immagine ripresa in diretta ha fatto il giro dell’intero paese. Il cattivo è diventato la vittima, mentre l’operazione chirurgica e la lunga degenza hanno permesso a Bolsonaro di rifiutare i confronti televisivi diretti, considerati per lui un punto debole, e di gestire da convalescente vittima di un attentato la fase finale della campagna elettorale. Una situazione veramente unica.  

Il programma economico di Bolsonaro è fondato su controllo della spesa pubblica, privatizzazioni e riduzione del ruolo dello Stato. Sul piano dei diritti, il taglio scelto è quello dei governi militari golpisti: tolleranza zero verso chi si oppone, delegittimazione dei sindacati e dei movimenti sociali, negazione dei diritti civili. Lo slogan è quello di sempre: “Ordine, sicurezza e progresso”, mentre si lascia mano libera alle forze dell’ordine e alla difesa armata “fai da te” per contrastare tutto ciò produce fastidio, disturbo, protesta, diversità. Il conflitto sociale e la lotta per i diritti, in sostanza, sono collocati sullo stesso piano della criminalità e della delinquenza comune e come tali da reprimere con ogni mezzo per il bene della società. 

Quanto al Pt, i timori erano forti e legati all’evoluzione della “questione” Lula e alla concentrazione di forze e di interessi unitisi per distruggere definitivamente l'esperienza del partito dei lavoratori. Tuttavia, alla fine il Pt ha tenuto. Ha perso, certo, ma il rischio era la disfatta, mentre invece il risultato raggiunto con la candidatura di Fernando Haddad (ex ministro dell'Educazione ed ex sindaco di San Paolo) e di Manuela D’Avila (giovane donna, molto attiva e in prima linea per la difesa dei diritti civili e sociali) è andato oltre le aspettative del gruppo dirigente. In particolare nel secondo turno vi è stata una mobilitazione popolare, spontanea, diffusa in tutti gli Stati, con una grande partecipazione dei giovani, dai quartieri popolari alle università.

Proprio i giovani hanno dimostrato una voglia di partecipazione e di cambiamento che ha messo in discussione la stessa conduzione del partito, ancora rappresentata dal gruppo dirigente della prima ora e da chi, forse, ha le responsabilità maggiori per gli errori fatti e per aver abbassato la guardia nei confronti dei gruppi di potere locale e delle pratiche della malapolitica. La rinascita del Pt e il ritorno alla vocazione originale di partito dei lavoratori, degli esclusi, della maggioranza discriminata e oppressa potrebbe iniziare proprio con questa esperienza elettorale e con la partecipazione popolare di giovani e donne che hanno ripreso la bandiera dei diritti e delle libertà e che non sembrano disposti a lasciarla in mano ad altri o a ritirarsi a vita privata.

Ciò trova conferma nella volontà, espressa da tutti i soggetti che hanno preso parte all'alleanza elettorale a sostegno di Haddad – dai due partiti Pt e PCdoB fino ai movimenti sociali e alle centrali sindacali –, di non sciogliersi, ma di continuare uniti nella difesa dei diritti, delle libertà e della democrazia, alzando un argine contro questa nuova ondata di odio e di violenza cavalcata dalla nuova destra e oggi vincitrice alle urne. Le immagini viste nei vari canali televisivi, nelle ore che hanno seguito l'annuncio della vittoria di Bolsonaro, con le camionette dei militari che sfilavano nelle città tra due ali di folla plaudente, e gli atti di violenza e intimidazione nei confronti di sedi e dirigenti di sindacati e movimenti sociali sono un segnale di allarme in un paese e in un continente in cui le ferite inferte dai militari e dalla violenza non si sono ancora richiuse.   

Un allarme che ha già preso la forma di una proposta, quella lanciata dalla Cut nella riunione tenutasi alla vigilia del voto nella sede nazionale di San Paolo alla presenza delle delegazioni internazionali che hanno accompagnato la giornata elettorale. Il sindacato brasiliano ha proposto di dare vita a un Comitato internazionale di difesa della democrazia contro le nuove forme di fascismo e contro la strategia oramai chiaramente internazionale delle destre tesa a restringere libertà e diritti, rinnegando i princìpi e i valori della pacifica convivenza su cui si fondano le nostre società, i nostri Stati, i processi di integrazione regionale e lo stesso concetto di democrazia.

Sergio Bassoli, area Politiche europee e internazionali Cgil