In un mondo sempre più liquido la società umana tenta, per sua natura, di coagularsi attorno a nuove o vecchie certezze, nuovi o vecchi punti di aggregazione in tutti i campi della vita morale, sociale, civile, economica, politica. Si distruggono impostazioni del passato, ma, siccome non si può fare a meno di inseguire certezze, si creano contemporaneamente nuovi punti di riferimento, nuovi benchmark, che possono essere la riscoperta o la rivisitazione di punti di riferimento che si credevano superati, ma che ricompaiono sotto altre vesti.

Una cosa del genere sta avvenendo con l’impresa o meglio con l’idea d’impresa. “Impresa che, soprattutto nella sua dimensione transnazionale, ha ormai pericolosamente assunto la società, la politica e lo stesso Stato nelle sue articolazioni – ha scritto Giuseppe Amari su Rassegna Sindacale del 10 luglio scorso –, prefigurando un nuovo totalitarismo; in cui tutto è ricondotto a un suo preteso ed esclusivo interesse, che trascende, arrogantemente e stupidamente, persone, popoli, nazioni, e lo stesso ambiente geofisico. Un pericolo peggiore dell'hegeliano Stato etico: impresa etica assurta a nuovo Leviatano”.

Questa idea, sottolineata da Amari, in effetti sembra appartenere a molte multinazionali nell’odierno mondo globalizzato. Lo si vede chiaramente nel comportamento che queste multinazionali  impongono a Stati, lavoratori, comunità nel loro agire quotidiano. Contro questi comportamenti sono insorti negli anni recenti gli stessi Stati nazionali attraverso le politiche populiste o sovraniste, che si sono diffuse così profondamente da portare al potere un loro esponente, Donald Trump, nel Paese più potente del mondo. Ma la presa di posizione, anche forte, dello Stato non è altro che la contrapposizione del vecchio Leviatano al nuovo Leviatano. È lo scontro tra due Leviatani, che può infliggere un colpo mortale a quella creatura costruita lentamente nel tempo, ma in fondo ancora fragile, che è la democrazia liberale.

Il pericolo concreto è che i due Leviatani, “l’un contro l’altro armati”, si accordino tra di loro, ciascuno sottraendo parti di libertà agli individui e alle comunità. Purtroppo stiamo vivendo un momento in cui sembra che le democrazie liberali, per colpe anche proprie, arretrino pericolosamente e rischino di soccombere di fronte allo scontro tra i due Leviatani. Hobbes vince e all’orizzonte non si profila né un nuovo Locke, né un nuovo Montesquieu. E nemmeno – per venire ai pensatori italiani del secolo scorso – un nuovo Caffè (“Le libertà si garantiscono reciprocamente”) o un nuovo Calogero (“la più solida democrazia nasce dalla molteplicità delle democrazie”).

Ecco, proprio questo è il punto. La vera democrazia. Che non può essere solo l’andare a votare, né partecipare a partiti, movimenti, associazioni, ma deve diventare un esercizio quotidiano nella vita delle persone, dai rapporti tra gli individui alle relazioni all’interno dell’impresa. La democrazia è sempre plurale. Mezzo e fine. Metodo e obiettivo. Forse il principale motivo per cui la democrazia è entrata in crisi è che non è più progredita, non si è estesa abbastanza dentro le pieghe della società e della vita economica, non ha saputo rispondere alle nuove sfide dei tempi. E non crescendo, è arretrata. Fino ad arrivare ai minimi storici e assistere quasi impotente alla sfida dei due Leviatani.

Ma come si può far entrare la democrazia nell’impresa, allontanando da essa la terribile immagine del Leviatano? La strada non è né corta, né semplice, necessita di passi successivi. Non deve essere imposta dall’alto, non deve contenere forzature, deve essere recepita dall’imprenditore, dal management e dalle forze di lavoro in maniera naturale e spontanea. Utopia? Qualche esempio storico esiste. Basti pensare all’Olivetti del grande Adriano, che è riuscita a essere contemporaneamente grande fucina di tecnologia, occupazione, cultura e punto di riferimento fondamentale per la comunità territoriale del Canavese.

Né si possono dimenticare i distretti industriali à la Becattini, che non sono stati e non sono semplici cluster di imprese accomunate dalla realizzazione dello stesso prodotto e dalla presenza di economie esterne di scala, ma fonti di benessere sociale ed economico delle comunità locali che partecipano alla crescita delle imprese e sono da esse ricambiate attraverso l’erogazione di salari e servizi, realizzando una qualità della vita migliore. Più recentemente vi sono gli esempi delle filiere eco-sostenibili, le imprese socialmente responsabili, le imprese dell’economia circolare. È con questi primi passi che inizia la strada di un’impresa per diventare strumento di progresso civile, sociale e democratico.

Ma quello che più conta è il significato da dare alla mission imprenditoriale nel contesto in cui opera l’impresa. Intrinsecamente, il progetto che l’imprenditore persegue ha delle ricadute sociali, che possono essere positive o negative. Quando sono positive, si crea valore condiviso, come sottolineano in un famoso articolo del 2011 pubblicato sulla Harvard Business Review Michael Porter e Mark Kramer. “Le aziende devono attivarsi per riconciliare business e società. (…) La soluzione sta nel principio del valore condiviso, che comporta la creazione di valore economico con modalità tali da creare valore anche per la società, rispondendo ai suoi bisogni e ai suoi problemi (…)”.

“Il valore condiviso – continuano Porter e Kramer – non è responsabilità sociale, filantropia o sostenibilità, ma un nuovo approccio al perseguimento del successo economico. Non sta alla periferia, ma al centro, di ciò che fanno le imprese. Noi siamo convinti che possa dare origine a una radicale trasformazione del pensiero nel mondo delle imprese. (…) L’obiettivo delle imprese va ridefinito intorno alla creazione di valore, e non intorno al profitto in quanto tale. Ciò darà origine a una nuova ondata di innovazione e di crescita della produttività nell’economia globale. Ridisegnerà anche il capitalismo e la sua relazione con la società. Ma soprattutto, imparare a creare valore condiviso è la migliore opportunità che abbiamo a disposizione per legittimare nuovamente il business”.

Creare valore condiviso significa rafforzare la competitività dell’azienda, migliorando nello stesso tempo le condizioni economiche e sociali degli stakeholder, che comprendono le comunità in cui l’impresa opera. Valore condiviso corrisponde all’idea di bene comune, sulla quale convergono il meglio del pensiero democratico e il meglio del pensiero sociale cristiano (G. Scanagatta e A. Pasetto, Sviluppo e Bene Comune, Collana Ucid-Libreria Editrice Vaticana, 2012). La sua creazione può avvenire sia riconcependo prodotti e mercati, sia ridefinendo la produttività lungo la catena del valore (dai fornitori ai clienti), sia creando un ambiente istituzionale attorno all’impresa (scuole di formazione, università, associazioni imprenditoriali, enti culturali), in cui più favorevolmente si propaghino i valori di condivisione sociale.

Alla lunga è un approccio che paga, in quanto consente di accumulare un patrimonio di reputazione che il mercato percepisce, aumentando la domanda di quei beni e servizi che creano valore condiviso. È attraverso questa strada che riescono a instaurarsi rapporti di dialogo e di condivisione tra l’impresa, coloro che vi lavorano e tutti gli stakeholder. Il risultato finale è la compartecipazione effettiva dei lavoratori e della comunità all’avventura imprenditoriale.

Attilio Pasetto è un economista, collaboratore della rivista online di critica sociale Eguaglianza & Libertà