Il salario minimo legale è una delle istituzioni del mercato del lavoro più diffuse al mondo. L’Italia è uno dei pochi paesi occidentali dove tale misura non è presente – nonostante l’introduzione del salario minimo fosse prevista dalla legge delega del Jobs Act e fosse presente nel programma elettorale di molti partiti – e dove, nel dibattito, viene spesso confusa con il reddito minimo o perfino con il reddito di base. Anche per questo è importante parlare di salario minimo legale, senza dimenticare che la sua introduzione può far parte di una strategia di pre-distribuzione per aumentare il potere negoziale dei lavoratori e quindi il loro reddito prima dell’intervento del sistema fiscale.

Ma come funziona? E qual è il suo impatto su povertà e disuguaglianze? Un salario minimo legale serve ad assicurare che nessun lavoratore sia pagato meno di una certa cifra stabilita per legge; 29 dei 37 paesi Ocse hanno una forma di salario minimo legale. Non esiste, come detto, in Italia e, all’interno dell’Ue, in Austria e nei paesi del Nord Europa, dove i minimi salariali sono fissati per contrattazione collettiva a livello settoriale. Con un adeguato livello di copertura dei contratti collettivi, minimi legali o contrattuali sono pressoché equivalenti, ma con copertura della contrattazione declinante, l’introduzione di un minimo legale può diventare necessaria per coprire quei lavoratori che i contratti collettivi lasciano scoperti (come avvenuto negli anni novanta nel Regno Unito o recentemente in Germania, dove il salario minimo nazionale è stato introdotto nel 2015).

Il salario minimo prende varie forme: può essere fissato a livello nazionale, come in Francia, Germania o Regno Unito, ma anche a livello sub-nazionale, come in paesi federali o di grandi dimensioni come gli Stati Uniti (in cui addirittura può essere stabilito a livello di città), Messico, Giappone, Cina o Brasile. In alcuni casi il salario minimo legale può essere definito anche solo per alcuni settori (come nel caso della Germania prima dell’introduzione del minimo nazionale nel 2015) o per specifiche occupazioni (come a Cipro).

In alcuni paesi il valore del salario minimo è definito per scelta politica, come negli Stati Uniti, e quindi soggetto alle maggioranze del momento (in genere i Democratici lo aumentano e i Repubblicani lo bloccano). In altri la sua definizione è demandata alle parti sociali (in Belgio), in altri ancora è nelle mani di una commissione specifica (come la Low Pay Commission britannica o la Mindestlohn Kommission tedesca), che, con il coinvolgimento di parti sociali ed esperti, ha il ruolo di promuovere un dibattito informato e non politico e dare consigli, normalmente seguiti, al governo o al Parlamento.

Il valore del salario minimo varia fortemente tra i Paesi Ocse. Va dal 35% del salario mediano negli Stati Uniti a oltre il 70% in Cile o Turchia (dove però il salario mediano è sottostimato a causa dell’ampia presenza di lavoratori informali). Tuttavia, i valori lordi del salario minimo non forniscono un quadro accurato della retribuzione netta dei lavoratori, né dei costi derivanti dall’assunzione di lavoratori con salario minimo per le imprese. Infatti, per ridurre i costi dei datori di lavoro e il rischio di perdite occupazionali, alcuni paesi, in particolare la Francia, hanno introdotto consistenti riduzioni dei contributi previdenziali a carico delle imprese che impiegano lavoratori con salario minimo.

Altri paesi hanno tentato di aumentare l’efficacia del salario minimo utilizzando riduzioni mirate delle imposte sul reddito o dei contributi sociali dei dipendenti a basso reddito. Alcuni offrono crediti d’imposta o i cosiddetti in-work benefits (prestazioni sociali rivolte a lavoratori a basso reddito; per esempio: Belgio, Messico, Regno Unito), mentre altri ancora si basano su imposte progressive sul reddito per mantenere gli oneri fiscali dei lavoratori a basso reddito ben al di sotto di quelli applicabili al lavoratore medio (Nuova Zelanda).

Salari minimi lordi e netti e costo del lavoro al salario minimo nei paesi dell’Ocse con salario minimo legale, 2016

In % della retribuzione media lorda, della retribuzione media netta e del costo medio della manodopera rispettivamente

Ma quale ruolo può giocare il salario minimo contro la disuaglianza e la povertà? Retribuzioni minime più elevate sono associate a una disuguaglianza salariale più bassa, come argomentato nell’Employment Outlook dell’Ocse 2015. Questo avviene per un effetto meccanico, dato che un minimo legale tronca la parte bassa della distribuzione salariale (o perché i lavoratori pagati del minimo vedono il loro salario aumentare o perché vengono licenziati), ma anche per un effetto “onda” sul resto della distribuzione: per mantenere un minimo di differenziale tra lavoratori con diversi ruoli e competenze anche i salari superiori al minimo tendono ad aumentare.

Non solo. Un salario minimo legale può anche ridurre la crescita dei salari nella parte superiore della distribuzione (perché i datori di lavoro non possono permettersi aumenti equivalenti), contribuendo a ridurre ulteriormente la disparità salariale (Hirsch, Kaufman e Zelenska, Industrial Relations, 2015). Se si segue una prospettiva dinamica, considerando l’intera carriera lavorativa, l’effetto “pre-distributivo” del salario minimo è sempre presente, ma inferiore per effetto della mobilità salariale oltre ai minimi, come segnalato dall’Ocse.

In compenso, un salario minimo legale è uno strumento solo parziale nella lotta alla povertà, anche limitatamente alla povertà lavorativa. Situazioni di povertà possono emergere da paghe orarie basse, ma sono soprattutto determinate dall’avere un lavoro o meno, dall’intensità di questo lavoro (poche ore o a tempo pieno) e dalla composizione familiare. Un salario minimo legale può solo assicurare un minimo orario, ma niente di più.

Inoltre, il salario minimo non sempre corrisponde a quello che gli inglesi chiamano un living wage, cioè un salario sufficiente per vivere. Così, un salario minimo legale, uguale in tutto il paese può permettere di vivere dignitosamente in un paesino di campagna, ma essere del tutto inadeguato nel centro della capitale. Un altro dato: il salario minimo non riguarda solo i poveri. In Francia, per esempio, solo il 23% dei lavoratori pagati al salario minimo è povero.

Accompagnare i salari minimi con in-work benefits o crediti d’imposta può essere un modo più efficace di affrontare la povertà rispetto all’utilizzo di salari minimi isolati. In Francia, per esempio, stime del Gruppo di esperti sul salario minimo mostrano come un aumento della Prime d’activité, un sussidio che premia chi ha un impiego, di pari livello rispetto al costo per le casse pubbliche di un aumento del salario minimo (il salario minimo francese è accompagnato da una sostanziosa riduzione di contributi sociali) ha un effetto di riduzione della povertà molto più significativo che un aumento del salario minimo, perché concentrato sulle fasce più deboli.

In un’ottica di lotta alla povertà, quindi, un salario minimo deve essere completato da altri strumenti, e in particolare da forme di prestazioni sociali per chi lavora che sostengano il reddito senza disincentivare il lavoro. Senza contare che un salario minimo può migliorare il targeting di queste prestazioni e può aiutare a contenere i loro costi. Per esempio, uno degli obiettivi dichiarati del salario minimo nazionale nel Regno Unito è garantire che le prestazioni sociali aumentino effettivamente i redditi dei lavoratori invece di essere “intascati” dai datori di lavoro con una riduzione del salario di importo simile.

In conclusione, il salario minimo legale può essere un utile strumento per assicurare un “valore” minimo al lavoro e per ridurre le disuguaglianze prima dell’intervento pubblico, però deve essere accompagnato da strumenti di sostegno al reddito e deve essere calibrato attentamente con il sistema di tassazione per renderlo efficace anche contro la povertà.

Andrea Garnero è economista presso il Direttorato per l’occupazione e gli affari sociali dell’Ocse e membro del gruppo di esperti sul salario minimo in Francia