L'importanza delle similitudini nella strutturazione dei nostri discorsi quotidiani è ben nota ai linguisti, che parlano significativamente delle “metafore di cui viviamo” (Lakoff & Johnson, 1980). Con questa espressione, i linguisti che si occupano di strutture cognitive suggeriscono l'idea che le metafore non siano un semplice abbellimento retorico, ma svolgano una funzione sostanziale per la stessa ricerca del significato in cui la mente è continuamente impegnata, mentre guarda al mondo e cerca di agire in esso (Bruner, 1992). Argomentano infatti che solo una parte dei concetti descrittivi usati dalla mente si appoggi direttamente sull'esperienza; mentre un'altra parte rilevante di concetti padroneggia il significato, accostando la sfera semantica di un concetto a un'altra sfera semantica di un secondo oggetto, che sembra poterla illuminare per via delle analogie ravvisabili tra due oggetti di esperienza messi in parallelo.

Anche Hannah Arendt (1978), nel suo lavoro di riflessione sulla vita della mente, individua l'importanza della metafora appunto nella capacità di questa funzione di trasportare su un altro livello una catena riflessiva, che si interromperebbe se il pensiero non ricorresse alla metafora. Trasferendo una riflessione che non riesce ad avanzare oltre su un certo oggetto di conoscenza nel parallelismo con un'altra forma di concettualizzazione che può continuare a essere sviluppata, la metafora ci permette di vedere con chiarezza in quella parte di realtà per cui non possediamo ancora sufficienti strumenti di pensiero. La metafora illumina in questo modo alcuni aspetti che, nati in realtà grazie all'accettazione di un parallelismo, vengono tuttavia colti con tutti i caratteri di una percezione diretta.

In questo senso, ad esempio, con una potente metafora alla fine del Settecento Pinel, “nel nome dell'umanitarismo medico illuminato dalla ragione” (Jervis, 1997, p. 46), propose che la sofferenza psichica potesse essere metaforicamente accostata al concetto di malattia. Così Pinel, proponendo di trattarla “come se” fosse una malattia, distaccò la percezione dei folli da quella dei delinquenti, con cui venivano in quel tempo confusi. La metafora che metteva in parallelo la condizione del folle con una condizione di malattia rese quindi evidente e urgente la necessità di far cadere le catene con cui i pazzi erano prima legati nelle stesse prigioni dei carcerati. Ciò permise di accettare la proposta di cambiare la forma del trattamento di questa condizione esistenziale, considerando evidente la necessità di liberare i folli dal carcere per affidarli al cosiddetto “trattamento morale” di Pinel.

Tuttavia, uno dei poteri della metafora, dovuto proprio a questa sua potente capacità di provocare un’immediata e irriflessa ristrutturazione percettiva del fenomeno cui viene applicata, è quello di trasformarsi facilmente in una reificazione: cioè di passare da quello che era inizialmente solo un parallelismo retorico all'equivalente di una percezione diretta, che ci pare evidente come una sorta di cosa in sé. In modo magistrale, lo psichiatra Thomas Szasz ha illuminato, nei suoi classici contributi degli anni sessanta, quanto la metafora della pazzia come malattia proposta da Pinel, inizialmente rivoluzionaria rispetto al trattamento inumano dei folli ristretti nelle prigioni comuni, nel tempo abbia portato con sé una reificazione (Vatz and Weinberg, 1994). Tale reificazione, partendo dall'indubbia liberazione provocata da Pinel dalla precedente restrizione carceraria, ha generato successivamente un'altra forma di detenzione, considerata a lungo indubitabile, e poi combattuta con vigore dalla più avanzata psichiatria internazionale, sulle orme del lavoro di Franco Basaglia: se la pazzia è una malattia, i manicomi sono necessari, in quanto “ospedali”.

In modo molto interessante, per combattere questa reificazione (dall'idea che si può considerare la follia “come se” fosse una malattia, all'idea che la follia “è” una malattia, e che il manicomio è quindi un'altra forma di ospedale) Szasz si è servito di un'altra forma di metafora: Mi sono messo a insistere che gli ospedali psichiatrici sono come prigioni e non come ospedali, che l'ospedalizzazione involontaria per malattia mentale è una forma di imprigionamento e non una forma di cura medica, e che gli psichiatri che lavorano in situazione di coercizione hanno una funzione di giudici e di carcerieri e non di medici e di curanti, e ho suggerito che noi viviamo e comprendiamo le ‘malattie mentali’ e le risposte psichiatriche a queste condizioni come un problema di legge e di retorica, e non come un problema di medicina o di scienza” (Szasz, 2010, p.2).

È molto suggestivo notare che questo grande psichiatra, combattendo gli aspetti paradossali della reificazione della metafora della malattia mentale, abbia di nuovo usato del potere della metafora per provocare una nuova forma di percezione sociale: quella di una diversa forma di imprigionamento, basato non sulla scienza medica, ma sulla giustificazione retorica di una prassi sociale che, sotto la metafora della cura medica, aveva restaurato quegli stessi aspetti di trattamento immorale della follia combattuti da Pinel nello spirito libertario della rivoluzione francese. Ancora più interessante è il parallelo che Szasz suggerisce, nelle stesse pagine, accostando la retorica della cura medica che trasforma il contenimento manicomiale forzato in una cura ospedaliera con la retorica economica che giustifica il trasferimento di fondi da uno Stato all'altro con la metafora dell'aiuto.

Egli osserva infatti: Questa sorta di prelazione retorica non è ovviamente limitata alla ‘malattia mentale’. Al contrario, è uno stratagemma politico diffuso. Per esempio, un mio recente amico, l'economista dello sviluppo P. T. Bauer, ha ravvisato che questo stesso tipo di retorica ingannevole controlla il dibattito sull'aiuto estero. Chiamare i trasferimenti ufficiali di ricchezza ‘aiuto’ provoca un atteggiamento di mancata discussione. Disarma le armi critiche, oscura aspetti della realtà e mette un'ipoteca sui risultati. Chi potrebbe essere contro l'idea di aiutare chi è meno fortunato?” (Szasz, 2010, p.2).

Alla luce di queste riflessioni, ormai classiche nel campo dello studio del funzionamento cognitivo e sul rapporto tra pensiero e parole, possiamo meglio affrontare il tema proposto da Giuseppe Amari su Rassegna del 10 luglio (“L’impresa etica e i pericoli di un nuovo Leviatano”) e osservare oggi gli effetti del diffondersi e del consolidarsi della metafora aziendalistica come forma di descrizione egemonicamente diffusa dei rapporti sociali. In particolar modo, appare chiara la grande difficoltà a sottrarsi all'alone semantico di questa metafora. In questo senso, la metafora aziendalistica si è sviluppata, trasformandosi da espediente retorico a difesa di strategie economiche neoliberiste in rappresentazione sociale dominante della realtà, cioè in una vera e propria “idea irresistibile” (Moscovici & Doise, 1992). Chi può infatti dichiarare oggi impunemente di essere contrario all'idea della libera competizione, dell'importanza della selezione basata sul merito, della necessità dell'efficienza, della volontà di creare benessere con la propria capacità di intraprendere nuove imprese produttive?

Ma forse anche oggi questa metafora dominante può essere combattuta e la sua reificazione può essere demistificata ricorrendo alle metafore concorrenti, che possono illuminare gli aspetti paradossali e controproducenti dovuti all'accettazione acritica di questa illusoria semplificazione della realtà. La metafora dell'eccellenza, ad esempio, può essere compresa nella sua pericolosità ricorrendo – come retoricamente proposto da molti discorsi attuali di Papa Francesco – alla metafora dello scarto. Cosa accade infatti ai non eccellenti, agli scartati? Non possiamo non ricordare, ascoltando queste parole del vescovo di Roma, come questa sua strategia retorica odierna riecheggi un famoso passaggio biblico: “La pietra scartata dai costruttori è diventata pietra angolare…”.

Allo stesso modo, la metafora della produzione può essere combattuta dalla metafora della generatività. Una cosa, infatti, è parlare della capacità ri-produttiva, che è propria di tutte le specie, che si assicurano la continuità dando regolarmente vita a nuovi individui. Altra cosa è la capacità, solamente umana, di generare, cioè di dare inizio alla vita di nuove persone. Interessantissima a proposito è la riflessione sul concetto di natalità di Arendt, che prende le mosse dal pensiero di Agostino, cui la studiosa aveva dedicato la sua tesi dottorale. Ispirandosi all'idea agostiniana dell'intelligenza umana come definita dalla sua capacità unica di dar inizio a una nuova vita (“Initium ut esset, homo creatus est”), Arendt (1978) spiega in modo magistrale la differenza tra la riproduzione naturale e la nascita propria degli umani.

In modo molto sintetico, per i fini della nostra riflessione sulle conseguenze paradossali della metafora aziendalistica, basti pensare alla differenza di base tra riproduzione animale e generatività umana. Spinto dall'istinto, ogni animale abbandona il cucciolo difettuale, perché inadatto alla sopravvivenza. Con un salto evolutivo sorprendente, solo la comunità umana non solo accoglie, ma si industria per rendere possibile la vita del piccolo con handicap, e continuamente assiste i deboli, i malati, gli anziani. Al punto che gli storici datano l'inizio della prima comunità umana lungo il corso dell'evoluzione a partire dal ritrovamento del primo insieme di tombe in cui un gruppo nomade aveva sepolto vicini l'uno all'altro esseri in grado di camminare ed esseri con malformazioni o traumi che rendevano impossibile la deambulazione.

Questa forma di inumazione testimoniava che evidentemente gli esseri con difficoltà motorie non erano stati abbandonati, ma erano stati portati insieme con il resto del gruppo, nutriti e accuditi nel cammino, e seppelliti vicino agli altri. Solo la specie umana si basa non sulla sopravvivenza dell'individuo più adatto, ma opera per la sopravvivenza di tutti. Una metafora che pretende di dare ragione esaustivamente ed egemonicamente della vita sociale, dunque deve dimostrarsi capace di rappresentare non solo i produttivi o gli attivi, ma tutti i componenti del gruppo umano. Si passa in questo modo dall'uso del concetto di individuo – che nella metafora aziendalistica è unicamente l'individuo produttivo, competitivo, eccellente rispetto agli altri – alla metafora del volto, secondo la nota riflessione di Lévinas (1984): cioè della persona nel suo valore irripetibile, che si oppone alla riproducibilità seriale dell'individuo-clone.

Potranno queste altre metafore (la metafora dello scarto, della generatività, del volto umano) opporsi alla forza pervasiva della metafora aziendalistica? Alcuni grandi scontri nelle forme di rappresentazione alla base del pensiero sociale della nostra contemporaneità, oggi alle prese con sfide storiche epocali, possono forse essere descritti anche come una competizione tra queste metafore, che ci guidano nella lettura di noi stessi e del mondo.

Giovanna Leone è professore associato di Psicologia sociale e della comunicazione all’Università La Sapienza di Roma