Da tempo la Cgil si pone l'obiettivo di sviluppare una contrattazione “inclusiva”, intendendo per tale una contrattazione collettiva che riguardi quelle aree sempre più vaste di lavoratori che normalmente non rientrano nel suo campo di applicazione o restano ai margini di essa. Anche la prima fase di discussione in vista del XVIII congresso mette al centro questo  tema e lo fa a partire dal documento che ne costituisce la traccia. Il quale, mentre riafferma l'obiettivo di estendere questo tipo di contrattazione, riconosce però la debolezza dei risultati fin qui raggiunti su questo terreno, sul quale “abbiamo registrato i nostri limiti, le nostre pigrizie”. In effetti una sostanziale divaricazione tra obiettivi enunciati e risultati raggiunti in questo campo è un dato di fatto.

Ovvio che il carattere inclusivo della contrattazione collettiva dovrebbe riguardare in qualche misura tutti gli ambiti nei quali essa si esercita, ma in particolare dovrebbe trovare espressione attraverso due forme specifiche, spesso richiamate nei documenti e nella discussione: la contrattazione di filiera e quella di sito.

L'ultima conferenza nazionale d'organizzazione svolta nel settembre 2015 è giunta fino ad indicare, nel proprio documento conclusivo, un preciso e dettagliato modus operandi di tale tipo di contrattazione, di cui si concludeva per indicare un soggetto protagonista: “il/la delegato/a di filiera deve rappresentare il naturale raccordo di una politica confederale che ha bisogno di essere esercitata per governare il complesso processo di coordinamento tra le categorie ed il punto di sintesi di istanze non direttamente contrattuali, ma altrettanto importanti per il rapporto tra impresa–lavoratori–territorio.”

Tuttavia bisogna prendere atto che queste indicazioni hanno trovato molta difficoltà ad essere attuate. Non solo il delegato di sito e filiera è rimasto sulla carta, ma anche i casi concretamente realizzati di contrattazione di questo tipo restano assai limitati nel numero e nell'ampiezza dei temi trattati. In particolare, restano molto rari gli accordi in qualche modo riconducibili ad una contrattazione di filiera: quei pochi casi sono quasi sempre legati ad un particolare interesse aziendale a promuovere un lungimirante processo di qualificazione della propria catena di fornitura, che viene ritenuta strategica per tutta la filiera.

Più diffusi sono gli accordi riconducibili a siti, ma ancora pochi se si considera le numerose situazioni (aeroporti, ospedali, grandi insediamenti commerciali, aree industriali) che potenzialmente potrebbero prestarsi a questo tipo di contrattazione e inoltre nella quasi totalità dei casi affrontano un solo tema per quanto importante: quello degli appalti. Solo uno degli otto temi che venivano indicati nel già citato documento conclusivo dell'ultima conferenza d'organizzazione: dai diritti d’informazione, alle politiche degli orari e dei tempi di lavoro, dalla prevenzione e sicurezza alla formazione e riqualificazione. Di fronte a questo quadro è giusto interrogarsi seriamente, evitando la scorciatoia troppo semplice, benché molto diffusa, di partire dall'individuazione di un colpevole o comunque di qualcuno cui addossare la responsabilità del mancato rispetto delle scelte compiute.

C'è anzitutto un equivoco da sciogliere, forse generato anche proprio dalla formula “contrattazione inclusiva”, che può far pensare a qualcosa che i più tutelati (gli insiders) dovrebbero esercitare - bontà loro - in favore dei meno tutelati (gli outsiders). Se di questo si trattasse, allora certo avrebbe un senso denunciare la “pigrizia” dei primi. Anche se non aiuta molto a far qualche passo in avanti. Ma è di questo che si tratta realmente? Le strutture nelle quali è organizzato il sindacato, confederali e di categoria, dovrebbero sforzarsi di più di contrattare in favore di qualcuno che si trova comunque fuori dall'organizzazione e che non esprime una propria rappresentanza? È possibile separare così nettamente il tema di una contrattazione inclusiva da quello di un'organizzazione altrettanto inclusiva? O non si tratta piuttosto di dare rappresentanza, e quindi anche titolo a esercitare la contrattazione, a chi oggi è escluso da entrambe?

Se guardiamo alla storia della Cgil, non c'è dubbio che la sua forza originale sia stata nella capacità di mettere insieme (“confederare”) realtà anche molto diverse tra loro, alle quali comunque veniva riconosciuto un autonomo spazio d'azione, riconducendole ad una visione unitaria. Oggi abbiamo di fronte lo stesso problema di allora: riconoscere le diversità che esistono nel mondo del lavoro, rappresentarle e poi confederarle. Dove il “poi” ha un significato logico più che temporale, perché in realtà non c'è un prima e un dopo, ma una contestualità.

Il tema va però riaffrontato alla radice, perché il mondo del lavoro è profondamente cambiato e la Cgil, nella sua cultura che poi si esprime anche nelle sue scelte organizzative, è figlia di un mondo caratterizzato da differenze diverse da quelle di oggi. E allora, se vogliamo uscire dall'astrattezza, dobbiamo tornare nel campo delle trasformazioni reali del mondo del lavoro. In questo campo troviamo che si sono indebolite, sfumate nel tempo, alcune delle differenze originarie e costitutive del sindacato com'è oggi: quella tra i diversi settori d'attività, che ha dato origine alle categorie; quella tra produzione e servizi; tra industria manifatturiera e industria di processo; tra lavoro operaio e impiegatizio; tra lavoro esecutivo e lavoro cognitivo; persino tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, per cui in alcune attività si sostituisce l'uno con l'altro in base alle convenienze del momento.

Ovviamente non si tratta di differenze che non esistono più, che sono state del tutto cancellate, ma esse appaiono oggi delimitate da contorni non più netti come prima, con una crescente presenza di aree “grigie”, dove sono talmente stemperate da tramutarsi di fatto in una sovrapposizione. Viceversa avanzano altre differenze, che prima erano inesistenti o molto meno rilevanti e che invece oggi è decisivo cogliere per rappresentare appieno il mondo del lavoro: quella ormai enorme tra lavoro stabile e lavoro precario nelle sue varie forme e articolazioni; quella tra lavoro nella grande e nella piccola impresa, distinte non tanto - come si fa di solito - in base al numero dei dipendenti, quanto piuttosto all'intensità del capitale investito; quella che riguarda la collocazione nella catena produttiva (appalti, subappalti, fornitura, distribuzione, eccetera); quella infine che riguarda la nazionalità del lavoratore, che va anche oltre la semplice distinzione tra italiani e stranieri, visto che spesso la nazione, o almeno l'area geografica di provenienza, determina approcci e domande molto diverse tra loro.

Né può essere dimenticata la differenza per eccellenza, quella tra uomo e donna, che certo non è una novità, ma che acquista una rilevanza del tutto nuova quando la quota femminile sul totale degli occupati continua ad aumentare anno dopo anno fino a giungere ormai molto vicina, nel lavoro dipendente, al 50%. A tutte queste nuove differenze il sindacato dovrebbe essere in grado di dare rappresentanza, che non significa solo iscrivere ad esempio più precari o più stranieri, ma anche dargli una voce autonoma, una possibilità di vedere concretamente riconosciuta la propria diversità. Certo non come l'unica, certo messa a confronto e contemperata con le altre differenze, ma comunque a partire da un riconoscimento di pari dignità che le consenta anche di essere in qualche modo tradotta nella contrattazione collettiva. Credo che solo in questo modo si possa sviluppare la contrattazione inclusiva e far crescere una nuova confederalità.

Come un approccio di questo tipo possa tradursi in scelte organizzative è un tema tutto da discutere, ma certo contrasta con alcune pratiche e convinzioni molto diffuse. Ad esempio con la logica un po' burocratica che spinge prima di tutto a inquadrare ogni lavoratore che si affaccia alla soglia di una sede sindacale dentro una categoria di appartenenza, costringendolo di fatto da subito ad accettare come criterio di distinzione unico o comunque preminente quello a cui è ispirata l'organizzazione.

Oppure con l'argomentazione, che pure serpeggia in qualche scorcio della discussione congressuale, che traduce sbrigativamente il concetto di confederalità in una sorta di sussunzione che annulla o ignora le differenze esistenti in nome di un interesse superiore di carattere generale. Scordando quello che insegna la stessa storia della Cgil, ossia che la confederalità nasce proprio dal riconoscimento delle differenze, dall'attribuirgli dignità e rappresentanza. Il problema è che le differenze di oggi, banalmente, non sono più quelle di ieri e quindi vanno prima di tutto indagate, riconosciute e rappresentate. Altrimenti il pur necessario richiamo ad una maggiore confederalità rischia di diventare un esercizio retorico o di ridursi ad una pura contrapposizione tra categorie e confederazione, sterile soprattutto se non è accompagnata a un ripensamento sia delle une che dell'altra.

Giuliano Guietti è presidente dell’Ires Emilia Romagna