Lavorare meno, lavorare tutti. Uno slogan di qualche decennio fa, ma che rischia oggi, seppur articolato in modo diverso, di tornare di strettissima attualità. Il perché è evidente per almeno due motivi. Il primo, si spera, transitorio: c’è la crisi, il numero complessivo delle ore di lavoro diminuisce e, dunque, quello che c’è si cerca di distribuirlo in maniera più equa. È il senso, questo, di tanti accordi di solidarietà che il sindacato in questa fase è costretto a firmare per salvare posti di lavoro. Ma sul piatto c’è ben altro: la tecnologia aumenta la produttività, rende possibile fare in meno tempo ciò che una volta richiedeva molto più lavoro. Cosa fare, dunque, di questo tempo “liberato”?

È proprio qui che torna la vecchia contrapposizione tra capitale e lavoro. “Una parte delle imprese sostiene che, visto l’enorme aumento della produttività, servono meno lavoratori e quindi punta a risparmiare sull’occupazione o, al contrario, a mantenerla allo stesso livello, ma diminuendo il salario – spiega Paolo Terranova, presidente di Agenquadri Cgil e da anni attento ai temi dell’innovazione –. Per lavoratori e sindacati la prospettiva è un’altra. L'aumento di produttività non è detto che debba essere tutto destinato all'incremento del profitto, ma può essere redistribuito con una riduzione dell’orario di lavoro. Si tratta di una sfida importante per la contrattazione”.

La redistribuzione
Torna un tema chiave dell’azione sindacale: quello della redistribuzione. Negli ultimi decenni abbiamo assistito a uno spostamento ingentissimo di risorse dal lavoro al capitale. Parliamo di circa 200 miliardi all’anno. È una questione di giustizia: una parte va restituita ai lavoratori sotto forma di salario o di tempo. E non è detto che i lavoratori scelgano per forza di cose il tempo. Ci sono fasi della vita in cui le persone possano aver bisogno più di ore di vita che di denaro, e non solo perché hanno figli piccoli o debbono assistere genitori anziani, ma anche per riappropriarsi di alcuni spazi, coltivare interessi e relazioni che non trovano soddisfazione nel lavoro o sul mercato. “Diverse ricerche realizzate soprattutto da sociologi statunitensi – aggiunge Terranova – studiano quali sono le componenti principali che rendono felici le vite delle persone. Ebbene, ci sono delle soglie oltre le quali la quantità di reddito non è più la dimensione fondamentale. Sono altre, spesso, le cose che contano”.

È proprio qui che la contrattazione assume un ruolo chiave. Si è parlato molto nei mesi scorsi dell’accordo territoriale siglato dall’Ig Metall nella regione di Stoccarda e che riguarda alcune centinaia di migliaia di lavoratori metalmeccanici tedeschi. L’intesa prevede un aumento salariale del 4,3 per cento con una riduzione della settimana lavorativa a 28 ore ed è nata proprio da una rivendicazione di questo tipo: se produttività e ricavi aumentano, una parte va appunto restituita ai lavoratori, sotto forma di denaro e di tempo. Si torna, insomma, al “grande” tema della flessibilità e della qualità della vita. Ma c’è un altro aspetto interessante che quest’intesa tocca. Si è molto discusso ultimamente della deriva rischiosa di un processo tecnologico che si trasformi in una sorta di incubo alla Philip K. Dick: un sistema che rende sempre più oppressivo e controllabile il lavoro. I braccialetti Amazon, ma anche le app usate per la tracciabilità delle azioni dei lavoratori, gli smartwatch collegati a sistemi di controllo e così via.

C'è stato uno spostamento ingentissimo di risorse dal lavoro al capitale. Una parte va redistribuita ai lavoratori

“C’è davvero il problema di come si usa la tecnologia – spiega Luca Beltrametti, direttore del dipartimento di Economia dell’Università di Genova –. Sono possibili declinazioni operative della tecnologia che contribuiscono a una vita migliore per tutti: questa è la via dell’innovazione. E per questo è fondamentale l’accordo siglato in Germania, importante soprattutto perché arriva dal cuore nevralgico dell'industria manifatturiera tedesca che, a sua volta, è la manifattura più digitalizzata d'Europa. È grazie a storie come queste che la parola flessibilità, che in Italia siamo abituati a concepire solo ed esclusivamente a favore delle imprese, può diventare un fattore che va a beneficio di tutti e che propone nuovi e interessanti modelli organizzativi”. Si tratta, tra l’altro, dell’unico modo per rendere il progresso tecnologico accettabile dai lavoratori, senza generare comprensibili atteggiamenti di resistenza.

Cominciano a diffondersi accordi che danno ai lavoratori la possibilità di ridurre l'orario di lavoro

Intese di questo tipo, seppur con una platea coinvolta ancora decisamente minore, cominciano a diffondersi anche in Italia. Nel territorio di Bologna i sindacati metalmeccanici hanno siglato accordi con Marposs, Samp, Ducati, Lamborghini e Bonfiglioli, che prevedono – con modalità e articolazioni diverse – la possibilità per i lavoratori di scegliere tra aumenti in busta paga e riposi orari. Ebbene, molti lavoratori hanno scelto la seconda opzione. I 30 turnisti della Marposs, azienda con 800 dipendenti, possono optare tra un orario di 6 ore e 45 minuti o 7 ore e 15 a settimana, con una maggiorazione di stipendio nel secondo caso. La stragrande maggioranza (27) ha preferito lavorare meno. Alla Samp (gruppo Maccaferri, 500 dipendenti) ai 200 turnisti è stato proposto di scegliere tra una maggiorazione della paga per le ore più disagevoli oppure la maturazione di permessi aggiuntivi. Nel primo caso avrebbero guadagnato 500 euro l’anno in più, nel secondo una settimana di ferie extra: il 75% ha scelto quest’ultima possibilità.

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La riduzione dell’orario di lavoro rende possibile anche un’altra opportunità, fondamentale in questo tempo di crisi in cui il lavoro spesso manca. Quella di tradursi in nuove assunzioni. Interessante, da questo punto di vista, un accordo siglato alla Valvoil, azienda metalmeccanica in provincia di Reggio Emilia con 900 dipendenti. A fronte di un livello consistente di fatturato e utili (rispettivamente, 192 e 22 milioni di euro), i sindacati hanno chiesto e ottenuto una riduzione d’orario di 24 ore l’anno e la stabilizzazione di alcuni precari. Non è stato facile. “Discutere di orari di lavoro è sempre complicato – ragiona Simone Vecchi, segretario generale della Fiom di Reggio Emilia –. Le imprese hanno generalmente un obiettivo: orario più lungo e, contemporaneamente, più flessibile per utilizzare al meglio gli impianti e massimizzare gli investimenti. Per noi ovviamente non è così e a volte, come in questo caso, otteniamo risultati importanti che ci consentono anche di ampliare l’occupazione in un territorio segnato da 7-8 anni di crisi molto dura”.

Cosa resta dell’orario
L’innovazione tecnologica sta spingendo il dibattito ben più in là del tema pure cruciale dell’orario e della sua possibile riduzione. Se il lavoro si misura sempre più in base ai risultati raggiunti e non tanto rispetto al tempo utilizzato per ottenerli, c’è chi si è spinto anche a sostenere che l’orario possa non essere più l’unità adatta per “misurare” e controllare la prestazione. Il riferimento all’orario potrebbe diventare sempre più formale e l’azienda fare invece leva “sull’interiorizzazione da parte dei lavoratori dell’obiettivo aziendale, cioè la responsabilizzazione, sul nuovo ruolo dei capi e su misure di risultato, un sistema più efficiente per l’impresa, apparentemente più umanizzato per il dipendente, un sistema privo di rigidità, ma forse più incerto sul piano della tutela”, ha scritto Anna Maria Ponzellini, partner della società di consulenza Apotema, Etica ed Economia, nel n. 3/2017 dei Quaderni di Rassegna Sindacale.

I grandi mutamenti tecnologici hanno sempre stravolto le dimensioni dello spazio e del tempo di vita e di lavoro

La stessa Ponzellini ci spiega: “Premetto che ho una visione abbastanza ottimista di questi cambiamenti in corso e li ho sempre visti come effetto di una pressione, magari non organizzata, ma comunque molto viva, tra i lavoratori per conquistarsi spazi di libertà nell’organizzare il proprio tempo. È chiaro però che questi mutamenti aprono anche prospettive di incertezza e di cui già adesso si vedono dei segnali inquietanti. Il fordismo, per semplificare molto, aveva trovato un suo paradigma efficace: tutti entriamo e usciamo insieme dalla fabbrica a una certa ora e timbriamo il cartellino. Non è detto che fosse l'unico schema sociale possibile, ma sicuramente ha dato ordine alla nostra vita quotidiana regolando stabilmente tempo di vita e tempi di lavoro”. Naturalmente un modello così rigido oggi non è più possibile. Il punto è: con cosa sostituirlo? Come scandire l’intreccio tra vita privata e vita lavorativa in un contesto così fluido come quello attuale?

È un interrogativo non nuovo per la storia dell’umanità. “I grandi mutamenti tecnologici hanno sempre stravolto le dimensioni dello spazio e del tempo che poi, come ci insegnano i fisici, sono sostanzialmente due facce della stessa medaglia – riprende Terranova –. E queste modificazioni hanno riguardato contemporaneamente il modo di produrre, di vivere e di consumare. L'elettricità ha reso possibili i turni di notte, i camion e i mezzi di trasporto hanno modificato i tempi di distribuzione delle merci e, quindi, hanno facilitato la modificazione dei meccanismi di consumo, solo per fare qualche esempio”.

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Allo stesso modo oggi, aggiunge il presidente di Agenquadri, “rete, digitalizzazione e smaterializzazione modificano complessivamente tempo e spazio del lavoro, li rendono meno rigidi. Il punto è, come si risponde a queste grandi modificazioni? Io credo che la capacità di organizzarsi dei lavoratori, di fare sindacato, di contrattare sia fondamentale: ed è quello che è accaduto dopo la seconda rivoluzione industriale, che ha reso possibili le grandi conquiste che tutti sappiamo”.

D’accordo anche Ponzellini: “Contrattazione e regolazione normativa del lavoro avranno il compito di definire dei pattern, degli schemi di rapporto tra spazio e tempo. Ce ne sono tanti: l'impiegata in smart working è diversa dal lavoratore dell'Ikea con la sua turnistica o il professional che lavora lontano fisicamente dalla propria azienda”. Il punto è sempre lo stesso: la flessibilità e la riduzione dell’orario devono essere ripartiti equamente tra impresa e lavoratori. Ed è per questo che il sindacato, il lavoro organizzato collettivamente, resta fondamentale.