Gli ultimi risultati elettorali testimoniano come, al di là di ogni giudizio politico, il tema del reddito sia per gran parte del Paese una questione prioritaria, non più procrastinabile. Senza voler fornire alcun tipo di valutazione, gli strumenti introdotti nell’ultima legislatura non hanno ricevuto il vasto consenso sperato. Il problema sembra essere non di tipo organizzativo o ingegneristico, ma essenzialmente concettuale.

Tutti gli ultimi interventi nascono dalla concezione, antiquata, che l’insufficienza di reddito riguardi parti minoritarie e emarginate della società italiana, i cosiddetti poveri. I rischi di inadeguatezza del reddito sembrano, invece, essere generalizzati e non più fronteggiabili solo con politiche di lotta alla marginalità e alla povertà. Se si confrontano i dati di copertura potenziale del reddito di inclusione (Rei) con il numero di individui in condizioni di insufficienza reddituale emerge una situazione drammatica. Il Rei, a regime, coprirà il 43% delle famiglie soggette a una grave crisi di reddito, con un sostegno massimale potenziale molto inferiore a quello previsto dalle stime dell’Istat.

Appare, allora, necessario adottare una diversa prospettiva e individuare nella grande trasformazione del lavoro la causa originaria dell’odierna insufficienza generalizzata di reddito. Il postfordismo si caratterizza come un tumultuoso processo che ha visto affermarsi nuovi modelli produttivi agili: dal modello Lean toyotista a quello delle isole di produzione, sino allo sviluppo di filiere produttive che aprono al processo di valorizzazione della produzione ogni forma di socializzazione interna ed esterna ai tradizionali luoghi della produzione.

In altri termini, le trasformazioni nelle strutture produttive degli ultimi decenni, hanno favorito la crescita della produttività del lavoro attraverso una costante diminuzione del capitale variabile rispetto a quello costante. Valga come esempio il caso del Real unit labour costs (Rulc), che – tra il 1979 e il 2012 – è sceso in tutte le maggiori economie europee, a tassi compresi tra il 5% e il 25%, testimoniando la capacità del capitale di diminuire i costi del lavoro senza ridurre i propri rendimenti (Franzini M., Pianta M., Disuguaglianz 2016).

Tale dinamica ha anche determinato a partire dagli anni ottanta nelle maggiori economie occidentali, la diminuzione della quota dei salari sul Pil. In Italia l’adjusted wage share si è ridotta dal 69,4 del 1960 al 60,6 del 2016, con un’oscillazione di addirittura 12 punti percentuali tra il massimo del 70,3 registrato nel 1964 e il minimo del 58,3 del 2001.

L’innovazione tecnologica digitale ha accelerato questi processi grazie alla diffusione, a partire dal settore automobilistico, di una cultura produttiva Lean. Il lavoro sempre più autonomo, adattabile, contingente, precarizzato, è diventato parte di un flusso produttivo composito e molecolare, fino ad assumere le forme contingenti più estreme, come nel caso dell’attivazione sulla base delle domande del cliente. La generalizzazione di lavoro occasionale, con un impiego di capitale variabile pressoché inesistente, ha fra l’altro reso i costi fissi sempre più simili ai variabili. Tutto ciò ha prodotto una vera e propria crasi tra lavoro artigianale e produzione di massa, con micro prestazioni esternalizzate, pagate a cottimo.

Questo ha determinato un ampliamento dei soggetti interessati a dinamiche di insufficienza reddituale. La mancanza di reddito è diventato un fenomeno costante non solo per gli esclusi dal mercato del lavoro e dai suoi status assicurativi, ma anche per gli insider nelle nuove forme di lavori (Jobs) e sicurezze che popolano la società postfordista. Per tale ragione il fenomeno della mancanza di reddito, oggi, non può essere affrontato solo con strumenti di sostegno al reddito per gli individui esclusi e marginalizzati, in attesa di una risolutiva inclusione nelle tutele e nelle sicurezze del lavoro flessibile, ma come fenomeno persistente, connaturato alla natura di un mercato del lavoro contingente e transizionale.

Nell’economia fordista il contratto collettivo permetteva di fissare, almeno per un certo periodo, il prezzo del lavoro, di norma in seguito a una fase conflittuale tra capitale e lavoro. Con la scomposizione, l’esternalizzazione e l’atomizzazione del flusso produttivo viene irrimediabilmente alterato il valore salariale del contratto e aumentano in misura esponenziale le forme contrattuali che non assicurano più alcuna corrispondenza tra la durata del lavoro, lavoro realizzato e prezzo corrisposto.

È possibile, perfino nelle forme contrattuali subordinate, che i lavoratori siano utilizzati a richiesta anche con diritto di esclusività delle loro prestazioni da parte dell’impresa. In alcuni Paesi europei (Gran Bretagna e Germania) è possibile stipulare contratti la cui durata non è legata né al prezzo del lavoro, né all’ammontare complessivo delle ore di lavoro garantite. Per l’Italia basterebbe citare gli ultimi dati dell’Osservatorio sul precariato Inps (2017), che rilevano nelle assunzioni a tempo determinato l’incremento dei contratti di somministrazione (+21,5%) e ancora di più quello dei contratti a chiamata, passati da 199 mila (2016) a 438 mila (2017), un aumento del 120%. Questi andamenti hanno comportato non solo una forte riduzione dell’incidenza dei contratti a tempo indeterminato sul totale delle nuove assunzioni (23,2% nei 12 mesi del 2017, contro il 42% del 2015), ma una sempre maggiore parcellizzazione dei contratti contingenti.

Il dibattitto per invertire tale dinamica è avviato, ma con scarsi risultati. Ricordiamo l’intenzione di fissare standard minimi di tutele reddituali per i lavoratori contingenti, compresi gig e crowd workers, nella risoluzione del Parlamento europeo del 19 gennaio 2017 sulla definizione di standard minimi sociali inderogabili. A livello nazionale l’indagine conoscitiva assegnata dalla presidenza del Senato all’undicesima commissione Lavoro e approvata nella seduta dell’11 ottobre 2017 evidenziava la “drastica riduzione dei costi di transazione, conseguente agli sviluppi tecnologici, che consente e consentirà sempre più largamente la diffusione di prestazioni ambigue, socio-economicamente dipendenti, in servizi offerti mediante piattaforma digitale con la conseguente necessità di un nuovo ordinamento protettivo che favorisca la continuità nel reddito”.

In termini legislativi la discussione si è concentrata su due proposte nettamente contrastanti: quelle di Airaudo e di Ichino, Da un lato, la via dovrebbe essere quella di estendere al contigent work vecchie o nuove fattispecie di tutele, con forme contrattuali più o meno flessibili. Dall’altro, occorrerebbe realizzare salvaguardie legate all’individuo, sulla scia dell’affermazione di un lavoro indipendente e imprenditoriale non salariato. Allo stato attuale, tuttavia, la maggior parte dei lavoratori rimane senza certezza di un reddito adeguato, anche perché nelle nuove dimensioni ultra-contingenti della Lean production il reddito è disgiunto in gran parte dal contratto di lavoro, ed è essenzialmente una richiesta individuale non l’elemento di un contratto, esito di una lotta collettiva.

Le forme attualmente corrisposte ai lavoratori casuali coincidono, infatti, con pagamenti relativi alla singola prestazione realizzata, con una perdita enorme di quote salariali. Un pagamento tipico di un’economia artigianale, utilizzato però in una produzione massificata che utilizza forza lavoro, non artigiani indipendenti. Una tipologia retributiva a cottimo, che nasconde la vera natura del lavoro utilizzato (salariato), garantendo margini di plus-valore illimitati e lo spostamento del rischio d’impresa verso il lavoratore. Il problema è allora come ricomporre una giusta redistribuzione delle quote di plusvalore tra capitale e lavoro, impresa e contigent-work, in un’economia agile e dai flussi produttivi frammentati.

Occorre per questo una diversa visione, che miri a realizzare, rispetto al reddito, un nuovo compromesso tra capitale e lavoro. Se nelle forme produttive agili il flusso produttivo è scomposto in tanti momenti interni ed esterni all’impresa, perché non considerare anche il salario come composto di tante micro prestazioni generatrici di micro-plusvalore, prestate anche contemporaneamente per diverse imprese, da riconnettere tra loro in un’unica struttura reddituale? Una possibile persistenza reddituale potrebbe essere ricomposta mediante un processo che non la collega né a uno status assicurativo universale, né all’individuo, ma che deriva da ogni singola perfomance produttrice di plusvalore, al di là del luogo, delle forme e del tempo in cui è stata effettuata.

Così nel nuovo modello produttivo parcellizzato e ricomposto in un unico flusso di produzione (gig, crowd, contigent work, fissured wokplace) la ripartizione del plusvalore e la sua assegnazione al lavoratore non può che avvenire alla fonte, con l’estrazione immediata di parte del guadagno accumulato dall’impresa. Per ogni crowd o contingent worker andrebbe composto, così, un conto delle attività realizzate dove ogni impresa che lo ha impiegato sarebbe vincolata a versare parte del valore accumulato tramite un’estrazione contingente di quote finanziarie. L’estrazione delle quote potrebbe avvenite mediante sistemi basati su server di marcatura temporale delle prove di lavoro, prevedendo un accesso regolato dell’autorità pubblica alla strumentazione tecnica che le piattaforme digitali sfruttano per realizzare il matching, ovverosia il software, le applicazioni che gestiscono i flussi informativi utilizzati per favorire l’incontro tra domanda e offerta e per realizzare, coordinare e remunerare le prestazioni.

La rete, in questo modo, potrebbe offrire gli strumenti per marcare temporalmente le attività lavorative crowd e più in generale contingenti, nonché le transazioni finanziarie a esse collegate, strutturando una catena continua di proof of work non modificabili. I tracciati potrebbero poi essere raccolti negli account personali aperti dai lavoratori all’interno di piattaforme digitali pubbliche. La costruzione di moderni e funzionali dossier individuali permetterebbe di conservare tutte le informazioni su ogni singola performance lavorativa occasionale realizzata sia on line che off line, riportando a unità momenti lavorativi disgiunti e frammentati. Replicando la filosofia produttiva Lean per la quale l’assemblaggio finale di tutti i prodotti e servizi realizzati rimane di competenza dell’azienda madre, il salario snello ricomporrebbe, nell’account personale, tutte le micro-quote finanziarie in un’unica e consistente forma reddituale.

Questi account dovrebbero essere alimentati anche nelle fasi di completa inattività, ricongiungendosi con un reddito di base. In concreto, si potrebbe combinare l’implementazione del reddito di base garantito con un conto personale di attività (Cpa). A differenza dell’esperienza francese del Compte personnel d’activitè il meccanismo di tutela a punti non sarebbe impiegato per conservare e accrescere voucher formativi (diritto universale alla formazione), ma per comporre una solida stabilità reddituale (diritto permanente al reddito). Appare ragionevole che il Cpa nelle fasi di inattività sia finanziato con contributi versati dalle imprese contingenti mentre il reddito di base sia a carico della fiscalità generale, con un’auspicabile integrazione del sistema fiscale con quello previdenziale.

Nella prospettiva indicata, inoltre, l’attivazione del soggetto percettore del reddito di base e del reddito integrativo sarebbe determinata non dalla necessità impellente di conservare il sussidio pubblico, ma da una personale e libera convenienza ad accrescere i propri introiti nelle fasi in cui non si effettuano prestazioni. Maggiori attività lavorative effettuate garantirebbero, infatti, più quote salariali accumulate nel proprio account e, quindi, più alte integrazioni al reddito di base nelle fasi di inoperosità. I Cpa potrebbero concentrarsi, inoltre, nell’assistenza e il sostegno personalizzato nella ricerca delle più idonee attività lavorative; liberando il servizio pubblico per l’impiego da azioni di controllo, per ricondurlo verso una più giusta mission di solidarietà e benessere collettivo.

Massimo De Minicis è ricercatore presso l’Isfol