Embraco, Alcoa, Ilva. Tre vertenze difficili, da risolvere al più presto e nel miglior modo possibile. "Noi ci battiamo per la reindustrializzazione di quei siti, e più in generale per una politica industriale che abbia un ruolo pubblico, che da troppo tempo manca nel nostro Paese”. Così Francesca Re David, segretario generale Fiom, oggi ai microfoni di Italia parla, la rubrica di RadioArticolo1.

Partiamo da Embraco. "A quel tavolo ci sono state tre manifestazioni d’interesse, una italiana, una cinese e una giapponese. Il ministero per lo Sviluppo economico sta provando a non chiudere il sito, valutando nei tempi utili quale possa essere la soluzione migliore fra quelle prospettate al tavolo. E poi bisogna affrontare anche il tema enorme delle delocalizzazioni”, ha affermato la dirigente sindacale.

Su Alcoa il quadro è diverso, perché è una vertenza che va avanti da anni, tanto che gli ammortizzatori sociali finiscono a giugno. "Ed è positivo - secondo Re David - che vi sia una società entrata in campo e che Invitalia abbia il 20% di quote partecipative. Il dato negativo è che non sappiamo nulla del piano industriale né quanti lavoratori verranno reimpiegati. E poi c’è il fatto inedito del 5 per cento delle azioni date ai lavoratori, su cui abbiamo molte perplessità, perché da noi non c’è il Consiglio di sorveglianza che esiste in Germania e il tema della partecipazione dei lavoratori all’impresa non è sviluppato".

Per quanto riguarda Ilva, siamo all’impasse, perché si tratta di una vertenza che in realtà non è mai iniziata. "Lo ribadiamo, avviamo il negoziato se riguarda tutti e 14.000 gli addetti, non solo due terzi di loro, e quindi se il vincolo è un contratto già firmato tra governo e azienda è chiaro che quel vincolo va rimosso, altrimenti non si può pensare che andiamo a sottoscrivere cose già definite da altri”, ha proseguito la leader delle tute blu.

“Più in generale, siamo in una fase molto delicata in cui l’innovazione sta entrando dentro le aziende - ha osservato -: il problema è che va contrattata, perché altrimenti si mangia le professionalità e il lavoro viene maggiormente dequalificato. Innovare è un bene, ma non solo per il profitto delle imprese, ma anche per il benessere di chi lavora e per il Paese nel suo complesso. È lì - in conclusione - che s’innesta la contrattazione tra innovazione e lavoro".

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