Del reddito di cittadinanza (come ormai viene chiamato da tutti) si dice che avrebbe avuto un ruolo decisivo nel successo elettorale del Movimento 5 Stelle. Non si può essere certi che sia stato proprio così. Sembra invece certo che su di esso le opinioni sono molto nette e il campo si divide – con pochissime eccezioni – tra chi è decisamente contrario e chi è decisamente a favore. Peccato, però, che molto spesso chi nutre opinioni così nette si riferisca a un reddito di cittadinanza che non sembra essere proposto da nessuno e, cosa che a noi pare degna di interesse, peccato che nella foga della contrapposizione politica vada persa la percezione della delicatezza e della complessità (da non intendersi solo in accezione negativa) delle questioni che il reddito di cittadinanza, o potremmo più in generale dire, “un reddito di cittadinanza”, pone.

Sostenitori e avversari
Per i sostenitori, il reddito di cittadinanza è lo strumento centrale per assicurare il diritto all’esistenza, in un mondo, come l’attuale, dove le grandi trasformazioni economiche e sociali rendono il lavoro sempre più precario. Esso permetterebbe (insieme ad altri trasferimenti) sia di vivere dignitosamente, sia – come indicato nel disegno legge presentato al Senato – di “abbattere la condizione di schiavi moderni, cioè la condizione nella quale si trovano tanti individui, laureati e non, costretti ad accettare qualsiasi lavoro, sottopagato, precario, senza possibilità di crescita o, addirittura, senza un adeguato contratto”. E tra chi lo sostiene sembra esservi anche la convinzione che possa fare molto anche per risolvere (o quasi) il problema della disoccupazione e, ancora di più, per dare buona occupazione.

Per gli avversari, invece, il reddito di cittadinanza è l’ennesima ed estrema manifestazione di un male, l’assistenzialismo, che da tempo caratterizzerebbe la politica sociale nel nostro Paese – e, con esso, del parassitismo –, implicando la violazione del valore del lavoro sancito dall’articolo 1 della Costituzione. Secondo Carlo Calenda, il reddito di cittadinanza sarebbe “un’aberrazione anche dal punto di vista dei valori. È molto più facile dare un reddito che dare un lavoro”, ricorrendo a una misura “ideologica” che risponde “allo stesso criterio con sui si usava la spesa pubblica negli anni ottanta e novanta”, cioè “l’assistenzialismo”.

Nella stessa direzione, vanno alcune dichiarazioni di Matteo Renzi, secondo cui il reddito di cittadinanza “darebbe soldi per stare a casa”, senza faticare. Non solo: “Dare un sussidio nega i valori fondamentali che i nostri nonni ci hanno insegnato: bisogna faticare. Dobbiamo non dare a tutti un sussidio, ma un lavoro”. Sulla stessa lunghezza d’onda, il suo consigliere economico Marco Leonardi: “Dare un sussidio incondizionato nel tempo favorirebbe soltanto il non lavoro, alla luce anche della situazione di degrado in cui versano molti centri per l’impiego”.

Senza dimenticare la questione dei costi. Sempre secondo Renzi, “Le proposte sul reddito di cittadinanza valgono cento miliardi di euro. Così saltano le coperture e la dignità di un Paese che si è fondato sulla fatica di chi lo ha creato”. Similmente, il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia porta l’attenzione sui rischi per il debito pubblico. In ogni caso, aggiunge Calenda, il reddito di cittadinanza “aumenta il carico per chi paga le tasse”, quando occorrerebbe “investire sulla competitività delle imprese, diminuendo la pressione fiscale”.

La proposta: alcuni dettagli
Ricordiamo brevemente i tratti essenziali della proposta del M5S. Il reddito di cittadinanza è un trasferimento che dovrebbe permettere a tutti di disporre di un reddito pari alla soglia della povertà relativa (60% del reddito disponibile mediano, circa 10.300 euro l’anno per “persona equivalente” nel 2014, in base ai dati Istat, Eu-Silc). Esso sarebbe erogato in misura pari alla differenza fra la soglia di povertà e il reddito equivalente a disposizione degli individui e la prova dei mezzi è centrata sul reddito (a prescindere dal patrimonio). I beneficiari devono essere cittadini italiani, comunitari o provenienti da Paesi con i quali l’Italia abbia accordi di reciprocità in materia di sicurezza sociale. Il trasferimento viene definito sulla base delle condizioni economiche del nucleo familiare, ma è erogato individualmente ai singoli componenti per tutto il periodo in cui il nucleo versi in condizioni di povertà (laddove l’attuale Rei viene concesso per un massimo di 18 mesi, con possibilità, dopo una pausa, di un eventuale rinnovo di 6 mesi). Pur in presenza di continuità nell’erogazione, la domanda per il reddito di cittadinanza deve essere rinnovata ogni anno.

Per tutti coloro che non studiano, non hanno responsabilità di un figlio fino a tre anni di età e sono abili al lavoro, l’accesso al reddito di cittadinanza è vincolato alla disponibilità a lavorare. Tale disponibilità si configura nei seguenti obblighi: 1) iscrizione ai servizi per l’impiego; 2) adozione, entro sette giorni dall’iscrizione, di un percorso di accompagnamento all’inserimento lavorativo; 3) ricerca di lavoro per almeno due ore al giorno, da subito; 4) esecuzione di lavori di comunità per almeno otto ore alla settimana (con eccezione di coloro che hanno compiti di assistenza di parenti ai sensi della legge 104); 5) accettazione, nel primo anno, di un’offerta di lavoro congruo, per mansione, retribuzione e distanza dal luogo di residenza, con la possibilità di tre rifiuti. La congruità concerne la presa in considerazione delle propensioni e delle competenze del beneficiario; la presenza di una retribuzione oraria maggiore o uguale all’80% di quella delle mansioni di provenienza qualora la retribuzione mensile di provenienza non superi l’importo di 3 mila euro lordi o, comunque, non inferiore a quanto previsto dal contratto collettivo nazionale di riferimento e in prospettiva di un salario minimo di 9 euro; la distanza del luogo lavoro che non deve superare i 50 chilometri dalla residenza del soggetto; 6) accettazione dopo il primo anno di qualsiasi offerta, anche se non congrua.

A questi obblighi si accompagna una serie di incentivi per individui e datori. Per esempio, chi denuncia una precedente attività irregolare, avrebbe un incremento del 5% del reddito di cittadinanza (chi è invece scoperto a lavorare in modo irregolare, non solo perderebbe il sussidio, ma dovrebbe restituire quanto guadagnato); chi trova lavoro autonomamente potrebbe contare su due mensilità aggiuntive di reddito di cittadinanza; chi assume, con incremento netto di occupazione, beneficiari del reddito di cittadinanza avrebbe un abbattimento dell’Irap di circa 600 euro al mese per un anno.

Una capillare rete di controlli con al centro l’Inps sarebbe messa in opera e vi sarebbero, infine, anche obblighi formativi. Alle famiglie con figli minori che non frequentassero la scuola dell’obbligo si applicherebbe, in prima istanza, una riduzione del trasferimento, che verrebbe completamente revocato al terzo richiamo. Al contempo, l’accesso al beneficio da parte dei figli fra 18 e 25 anni, è subordinato al possesso di qualifica/diploma professionale o di un diploma di istruzione secondaria di secondo grado, ovvero alla frequenza di un corso che porti a tale qualifica. Gli studenti universitari fuori sede possono accedere al reddito di cittadinanza solo qualora la loro famiglia di origine sia povera.

Queste caratteristiche, come anche altri hanno sottolineato, e in particolare Chiara Saraceno, rendono, evidentemente, la proposta del M5S ben lontana dal reddito di cittadinanza come concepito nella letteratura economica e filosofica. Quest’ultimo, infatti, si contraddistingue per essere un trasferimento individuale incondizionato rispetto sia alle risorse economiche detenute, sia alla disponibilità a lavorare. Il M5S si è mostrato consapevole della differenza, ma ha continuato a usare il termine con la giustificazione – chissà quanto convincente – che questo sarebbe il primo passo verso il “vero” reddito di cittadinanza, un ideale oggi irrealizzabile, ma verso cui tendere.

Questa breve descrizione del reddito di cittadinanza dovrebbe chiarire il debole fondamento di gran parte delle affermazioni ricordate in precedenza. Essa serve però a individuare alcuni punti di complessità, che investono, tra le altre, questioni quali l’effettivo impatto sull’occupazione e la crescita economica di questa misura, i suoi costi (non solo monetari, ma anche in rapporto ai probabili benefici) e l’importanza di valori quali la responsabilità individuale o sociale nel determinare condizioni di povertà.

Maurizio Franzini è professore ordinario di Politica economica nella Sapienza, Università di Roma; Elena Granaglia è professore ordinario di Scienza delle finanze nell’Università di Roma Tre; Michele Raitano è ricercatore di Politica economica nel Dipartimento di Economia e diritto della Sapienza, Università di Roma