Proliferazione di contratti pirata, diffuso sfruttamento del lavoro, illegalità di vario tipo. È la faccia oscura del sistema della moda, che da sempre produce ricchezza (nel 2016 ha fatturato 88 miliardi) e lavoro (oltre 600.000 gli addetti) e che costituisce il 17% del settore manifatturiero italiano e il 14% delle nostre esportazioni. Di questo, ha parlato Sonia Paoloni, segretaria nazionale Filctem, ai microfoni di Italia parla, la rubrica quotidiana di RadioArticolo1. “Il mondo della moda ha subìto per primo la crisi – ha spiegato la sindacalista –, in quanto è il settore più facilmente esportabile, ma è stato anche il primo a superarla, essendo già uscito da una ristrutturazione profonda. È un settore altamente competitivo, ma troppo spesso la competizione si gioca sulla riduzione di salari, diritti e sicurezza dei lavoratori. E le grandi griffe in parte si rivolgono ai mercati internazionali, in parte in Italia, utilizzando il sistema della subfornitura e del contoterzismo, ed è lungo tale catena che agisce l’illegalità. Un po’ come succede nella catena degli appalti delle grandi opere. Alla fine, l’azienda madre non ha più la responsabilità di quel che succede, perché non la vuole avere. È un sistema un po’ vigliacco di risparmiare sui costi delle lavorazioni per il mero profitto. Ma perché le grandi griffe non delocalizzano tout court? Qualcuna lo ha fatto, qualcun'altra no, perché molte lavorazioni devono essere fatte just-in-time, in quanto sono collezioni continue ed è difficile portare fuori l’intera fase di produzione per avere poi il prodotto finito in tempo reale, in base alle richieste. Perciò, l’esigenza di mantenere quote produttive nel nostro Paese c’è, oltre al fatto che il grosso marchio che vuole vantare un prodotto artigianale e made in Italy lo può fare solo se realmente le lavorazioni vengono fatte qui”.    

“Dal punto di vista contrattuale, gli ultimi rinnovi dei settori della moda, comparti industria e artigianato, li abbiamo chiusi il 14 dicembre scorso – ha precisato la dirigente sindacale – e sono stati accompagnati da un avviso comune e da un protocollo di legalità, proprio per garantire il rispetto delle regole lungo tutta la filiera produttiva. Accordi che abbiamo inviato ai ministeri del Lavoro, dello Sviluppo economico e dell’Istruzione, università e ricerca. La novità più importante è il riconoscimento del lavoro in contoterzi e subfornitura come lavoro in appalto, sulla falsariga di quanto ha già stabilito una volta per tutte la Corte Costituzionale, applicando l’articolo 29 della legge sugli appalti. Se non si fa così, è concorrenza sleale, perché crea dumping contrattuale. E chi non lo fa, impoverisce lavoratori e consumatori. Il tassello mancante, su cui aspettiamo la convocazione del Mise e del ministero del Lavoro, è quello riguardante l’applicazione della responsabilità in solido nella pluricommittenza”.

“Altra concorrenza sleale, quella giocata tutta sulla riduzione del costo del lavoro – ha rilevato ancora l’esponente Cgil –, che oltre alla riduzione dei salari, porta alla moltiplicazione di contratti alternativi a quello nazionale. Stiamo parlando di veri e propri contratti pirata. E ciò comporta un ulteriore serie di problemi: da un lato, c’è la diminuzione di salari e diritti, dall’altro, aumenta il rischio d’infiltrazioni illegali nella filiera e diminuisce l’attenzione per la sicurezza e la salute dei lavoratori. Purtroppo, questa pratica si è diffusa in Italia perché noi non abbiamo una legge sulla rappresentanza e non è mai stato applicato l’articolo 39 della Costituzione. Onde per cui qualsiasi organizzazione sindacale, sia da parte dei lavoratori che degli imprenditori, che decide di stipulare un contratto nazionale di lavoro lo fa e lo può applicare. A questo punto, l’unica nostra arma, non essendoci i due suddetti tasselli di legge, è quella di poter avanzare delle vertenze, delle richieste di equiparazione del salario dei lavoratori che vengono sottopagati nei confronti del salario maggiormente applicato a livello nazionale e sancìto dal ccnl. Ma si tratta di un’operazione complessa, che non dà garanzie neanche sul piano giuridico”.

“In molti ccnl del sistema moda abbiamo stabilito accordi con gli imprenditori, per cui l’azienda che dà lavoro al contoterzista deve assicurarsi che in quell’impresa vengano applicati i ccnl – ha concluso Paoloni –. La questione è ancora aperta e l’ultima novità attiene a una circolare del ministero del Lavoro che ha stabilito le linee guida dei controlli ispettivi per Inps e Inail nei confronti di aziende che non applicano i ccnl sottoscritti dalle organizzazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Già questo è un piccolo passo avanti, perché obbliga Inps e Inail ad andare a recuperare le differenze contributive tra il salario del ccnl sottoscritto da noi e quello che viene applicato, che in molti casi ammontano anche al 40% in meno. In tal modo, l’azienda non può più godere degli oneri sociali, ecc. e in più vengono comminate sanzioni anche per la mancanza dell’applicazione delle norme di sicurezza dei lavoratori, oltrechè della tutela della malattia, della maternità ecc. Insomma, un contratto al ribasso in tutti i sensi, che cerchiamo di contrastare in tutti i modi possibili”.