La pubblicazione del Rapporto Oxfam 2018, Ricompensare il lavoro, non la ricchezza, ha riportato al centro del dibattito, nazionale e internazionale il problema della crescente diseguaglianza nella distribuzione dei redditi e della ricchezza nel mondo, nonché della diffusione dei cosiddetti working poor. Il rapporto ha il dichiarato scopo politico di sensibilizzare l’opinione pubblica sul perverso triangolo che ha come vertici la diseguaglianza economica, lo sfruttamento del lavoro e la povertà; esso, inoltre, include diversi suggerimenti di policy in grado di arginare i fenomeni emergenti più preoccupati.

Il quadro complessivo che emerge è il risultato di un collage apprezzabile, ma in quanto tale esposto a qualche rischio di incoerenza, considerato il ricorso a molti risultati rintracciabili nei lavori scientifici prodotti negli ultimi anni da policy analyst e organizzazioni internazionali. Questo vale anche per il dato, presente nel rapporto, al quale è stato dato maggiore risalto dai media: la ricchezza dell’1% più ricco della popolazione mondiale sarebbe superiore a quella del restante 99%. Questa, come molte altre stime contenute nel documento, sono riprese dal rapporto Global Wealth Databook 2017 della Credit Suisse.

Da tempo si discute sulla concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi individui, e si discute anche sul modo in cui questa ricchezza si genera. A titolo di esempio viene richiamato il caso di Carlos Slim, il sesto uomo più ricco al mondo secondo la classifica Forbes, la cui fortuna è dovuta più che al suo talento e al duro lavoro, al monopolio che è riuscito a stabilire in Messico nel settore delle comunicazioni telefoniche. Il monopolio, la corruzione e l’eredità sono considerati i principali drivers alla base delle grandi fortune.

In generale, nel rapporto si sostiene che sono in crescita costante sia il numero di super ricchi, sia i redditi da essi accumulati. Poi, con il passare degli anni, le differenze nei redditi si tradurranno inevitabilmente anche nelle differenze di ricchezza. Quando le ricchezze non hanno origini propriamente nobili derivano, come evidenziato dall’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro), da una sperequazione delle ricompense: milioni di lavoratori percepiscono salari prossimi alla soglia della povertà, mentre i guadagni degli azionisti e dei dirigenti raggiungo cifre sempre più consistenti.

La necessità di richiamare questi argomenti potrebbe sembrare scontata, anche alla luce dei risultati del sondaggio (sono state intervistate circa 70 mila persone residenti in 10 Paesi) effettuato in occasione della stesura del rapporto; dalle interviste realizzate emerge che ampie quote di popolazione avvertono la necessità di ridurre il divario tra ricchi e poveri, divenuto ormai troppo ampio. La soluzione del problema, sempre secondo gli intervistati, spetterebbe ai governi.

Ma se da un lato gran parte della popolazione avverte questi divari come una questione da affrontare e risolvere in tempi contenuti, c’è anche chi, pur osservando gli stessi andamenti, propone una lettura del fenomeno diametralmente opposta. Riguardo a quest’ultimo punto ci riferiamo ad alcune considerazioni fatte da economisti più “liberali”, che vedono nella disuguaglianza non un problema, ma un’opportunità per migliorare le condizioni di tutti gli individui. A titolo di esempio, basta richiamare qualche passo di un breve articolo dell’Istituto Bruno Leoni.

Nella nota dell’articolo si legge che i risultati presentati da Oxfam, che viene anche accusato di fomentare l’invidia sociale, in realtà evidenziano un grande miglioramento delle sorti di ampie fette di popolazione. Il merito di questo accresciuto benessere è attribuito, con assoluta sicurezza, al sistema capitalistico, allo sviluppo delle tecnologie, nonché a mercati sempre più aperti. Le cause delle persistenti disuguaglianze, invece, devono essere ricercate in quelle norme e privilegi che impediscono la concorrenza e la mobilità.

Varrebbe la pena ricordare agli autori della nota dell’Istituto Leoni che il problema che si vuole affrontare non è il numero di ricchi, di per sé, ma come le risorse sono ripartite e quante di quelle ricchezze possono essere considerate accettabili; del resto, in molti Paesi politiche ispirate agli assunti della teoria del trickle-down non hanno mai generato i benefici promessi.

Tornando all’analisi del rapporto Oxfam, particolare attenzione è rivolta anche alla posizione dei Paesi più poveri nella catena di creazione del valore e a ciò che questo comporta in termini di diseguaglianza e di trattamento salariale. In più punti del rapporto, si fa riferimento alla condizione delle lavoratrici dell’industria tessile del Myanmar o del Bangladesh, che per lo più prestano il proprio lavoro a fornitori o subfornitori di grandi catene di abbigliamento globali. Queste donne sono impiegate per un salario di 3-4 dollari al giorno per giornate lavorative che arrivano alle 11-12 ore, e con settimane lavorative a volte anche di 7 giorni.

Negli ultimi anni si è, comprensibilmente, dato molto risalto alla raggiungimento di uno dei Millennium development goal, quello denominato Eradicate extreme poverty, che prevede di dimezzare tra il 1990 e il 2015 il numero di persone che vivono con un reddito inferiore alla soglia di povertà estrema, fissato a 1,25 dollari al giorno nel 2008 e rivisto nel 2015 a 1,90 – anche se , da più parti, è richiamata la necessità di rivedere anche questa soglia. Per restare all’esempio, le lavoratrici del tessile di cui sopra pur con un salario giornaliero al disopra di detta soglia non sono certo al riparo da situazioni di grave vulnerabilità; e infatti faticano, come riporta Oxfam, a soddisfare i bisogni essenziali di cibo e medicinali e finiscono in molti casi per indebitarsi.

E questo nonostante lavorino, anche se in maniera indiretta, per catene globali che generano enormi profitti: il fondatore della catena di abbigliamento Zara ha ricevuto solo nel 2016 dividendi per 1,3 miliardi di euro. Non è difficile intuire quindi il legame tra accumulazione di enormi ricchezze e crescita della diseguaglianza, da un lato, e sfruttamento del lavoro e povertà, dall’altro. È in questo snodo della catena che si innesta una delle denunce più interessanti del rapporto: un sistema che assegna una quota ampia e sempre più grande della crescita del reddito alla popolazione più ricca è un sistema profondamente inefficiente nella lotta alla povertà.

Anche alla luce di queste considerazioni si comprende perché, nel complesso, Oxfam individui come priorità, per arginare la crescente sperequazione economica, una più elevata remunerazione del fattore lavoro; nella sintesi del rapporto si legge: “Salari dignitosi e condizioni di lavoro decenti per tutti i lavoratori sono premesse fondamentali per porre fine all’attuale crisi della disuguaglianza”.

Una breve nota in chiusura: la responsabilità di scardinare questo meccanismo è affidata, comprensibilmente, ai governi e il rapporto propone diverse politiche di contrasto al crony capitalism, di regolamentazione, di imposizione fiscale, di spesa pubblica per la fornitura di servizi universali. Manca, a nostro avviso, un qualsiasi riferimento alla necessità di riportare all’interno della sfera pubblica le decisioni sul destino della struttura produttiva, e quindi la necessità di attuare politiche industriali e dell’innovazione in grado di indirizzare l’economia verso forme più produttive, sostenibili sia dal punto di vista ambientale che sociale.