In questi giorni (dal 2 al 5 ottobre) si sta svolgendo la riunione regionale europea dell'Organizzazione internazionale del lavoro, l'Oil. Un appuntamento rituale nel fitto calendario degli impegni dell'Oil, ma che quest'anno ha assunto un carattere di eccezionalità. Per la prima volta nella lunga storia dell'organismo tripartito delle Nazioni Unite dedicato al lavoro, organismo che celebrerà nel 2019 il proprio centenario, i rappresentanti del gruppo dei lavoratori nel consiglio di amministrazione non partecipano, in virtù di una decisione consapevolmente assunta, alla riunione regionale dedicata all'Europa.

Il perché di questa scelta, una scelta inedita e di particolare gravità, è presto detto. La riunione ha luogo a Istanbul, in Turchia. Un paese nel quale, dopo le vicende controverse e non sufficientemente chiarite del presunto colpo di stato di luglio 2016, sono diventate durissime le condizioni dei lavoratori, dei loro rappresentanti nei luoghi di lavoro, delle organizzazioni sindacali indipendenti e democratiche, delle forze politiche e sociali di opposizione al regime instaurato dal presidente Recep Tayyip Erdogan. È evidente come per il movimento sindacale internazionale sia inaccettabile tenere quella iniziativa proprio a Istanbul, rischiando di prestare il fianco ai tentativi di strumentalizzazione da parte delle autorità turche e di offrire in tal modo una indiretta legittimazione dei loro atti autoritari e contrari ai principi democratici e ai valori di libertà e giustizia sociale a cui l'Oil si ispira. Una scelta obbligata di fronte alla proclamazione della stato di emergenza, agli arresti arbitrari di lavoratori e dirigenti sindacali, al licenziamento e alla sospensione di oltre 125.000 lavoratori pubblici e privati, alla rimozione di giudici e professori di vario ordine e grado, alla detenzione di giornalisti ed esponenti politici.

La Confederazione sindacale internazionale, la confederazione europea dei sindacati, i rappresentanti dei lavoratori negli organismi di direzione dell'Oil hanno tentato con ogni mezzo di evitare questo boicottaggio. Certo, la decisione di svolgere la riunione a Istanbul era stata presa ben prima degli avvenimenti legati al colpo di stato e alla torsione antidemocratica che ne è derivata. Ciò nonostante, quanto accaduto non poteva lasciarci indifferenti. Abbiamo chiesto che la scelta della città in cui tenere la riunione venisse rimessa in discussione, abbiamo proposto di spostare la riunione in una sede istituzionale neutra (ad esempio Ginevra, la città che ospita il quartiere generale della stessa Oil), abbiamo auspicato una sospensione e un rinvio.

Nel maggio scorso, d'intesa con i sindacati turchi affiliati alla Csi e alla Ces, abbiamo avanzato una serie di richieste affinché la nostra contrarietà potesse essere superata. Si tratta di richieste relative alla revoca dello stato di emergenza, alla fine dei licenziamenti arbitrari e punitivi, al rilascio dei detenuti in carcere senza prove né capi di imputazione, al ritorno alla legislazione ordinaria con diritto a processi equi e a istanze di appello, al reintegro nelle loro funzioni e nel loro lavoro delle persone risultate innocenti, al risarcimento per i danni da esse patiti, al ripristino della libertà di parola e di espressione, alla ripresa dell'attività degli organi di informazione e delle associazioni democratiche e indipendenti, al rispetto dei fondamentali labour standard dell'Oil, all'avvio di un processo di dialogo fra tutte le componenti della società turca.

Nessuna delle richieste del movimento sindacale europeo e internazionale è stata presa in considerazione. Anzi, se possibile, come segnalano diversi rapporti di organismi indipendenti, negli ultimi tempi la situazione in Turchia è perfino peggiorata. Purtroppo, però, la nostra pressione non è stata in grado di cambiare la decisione a suo tempo presa. I rappresentanti dei governi e, soprattutto, quelli delle imprese non hanno ritenuto opportuno rimettere in discussione la scelta di Istanbul. 

Di qui la decisione, presa certamente non a cuor leggero, di boicottare la riunione e di non partecipare. Non può esservi alcuna discussione seria e utile sul lavoro in un paese in cui le persone che lavorano sono private di libertà e diritti, la militanza in un sindacato o in un partito è ragione di discriminazione e di carcerazione, la libera associazione in sindacati indipendenti e democratici e la possibilità di praticare la contrattazione collettiva sono pesantemente messe in discussione. Il nostro segnale è stato forte e chiaro: la Turchia deve avviare un processo di democratizzazione e di ritorno alla normalità e allo stato di diritto, i lavoratori turchi devono poter tornare a godere di tutti i diritti di cittadinanza nel lavoro e nella vita pubblica, i sindacati devono poter svolgere liberamente la propria attività. L'auspicio è che il messaggio sia raccolto dalle istituzioni internazionali, dai governi e dalla politica, dal mondo dell'economia e delle imprese.

Fausto Durante è coordinatore Area politiche europee e internazionali della Cgil