C'è un muro che divide l'Europa dell'Ovest da quella dell'Est. Non è più un muro fatto di mattoni, ma una solida barriera eretta sulle differenze economiche, enormi differenze economiche. Le persone che lavorano nei Paesi dell'Est dell'Unione europea guadagnano ben meno della metà rispetto ai loro dirimpettai occidentali (tra i quali noi italiani). Più precisamente, si va da salari che valgono il 42% dei nostri in Estonia a quelli della Bulgaria, che arrivano appena al 18%. Solo in Slovenia i lavoratori arrivano a guadagnare più della metà (il 60%) della media dell'Ue a 15.

I dati vengono da uno studio della Ces, la Confederazione dei sindacati europei, che ha lanciato una campagna (“Stop the unfair Eu east-west pay gap”), all'interno della sua più generale battaglia per un aumento dei salari in Europa (#OurPayRise), che chiede proprio di abbattere questo muro di disuguaglianza che attraversa l'Europa. Un muro che sembrava destinato a crollare negli anni '90 e nei primi anni 2000, quando le distanze tra le due Europa sembravano assottigliarsi progressivamente. Ma poi la crisi del 2008 ha bloccato bruscamente questo processo.

In 6 degli 11 Paesi dell'Est Ue il gap salariale è addirittura cresciuto tra il 2008 e il 2016. Le situazione più drammatiche si sono verificate in Croazia, dove i salari sono scesi dal 43% al 37% della media della parte occidentale dell'Ue, e in Ungheria, dove si è passati dal 35% al 28%. Ma il gap si è allargato anche in Polonia, Romania, Repubblica Ceca e Slovenia.

Il gap salariale tra Est e Ovest è drammatico – afferma Esther Lynch, segretaria confederale della Ces – ed è il risultato dello sfruttamento dei lavoratori in paesi in cui i sindacati e la contrattazione collettiva sono deboli. Durante la crisi – continua Lynch – nell'Europa dell'est si sono ridotti gli aumenti salariali ed estesi i tagli, perché per i datori di lavoro era più facile realizzarli”. Detto questo, secondo Lynch “è evidente che le differenze nella produttività e nel costo della vita non consentono di pensare ad una parificazione salariale, ma questo non giustifica una distanza così ampia”.

Secondo Béla Galgóczi, Senior researcher all'European Trade Union Institute (Etui) di Bruxelles, “il blocco della convergenza dei salari mina la coesione sociale nell'Unione europea”. Con la libera circolazione di capitali, servizi e persone – osserva il ricercatore - la persistente differenza salariale crea effetti negativi non solo nell'Est, ma anche nell'Ovest: da una parte con la fuga dei cervelli (anche noi in Italia ne sappiamo qualcosa, ndr) che mina lo sviluppo economico nella parte orientale dell'Unione, dall'altra con lo sfruttamento dei “posted workers”, i lavoratori distaccati in un altro paese, che mettono a repentaglio i salari ad occidente. Quindi – conclude il ricercatore – non siamo solo di fronte a un'ingiustizia per i lavoratori dell'Est, ma a un danno per la crescita sostenibile dell'Europa e a una minaccia per il suo futuro.

Figure: Nominal Compensation Of EU11 In % Of The EU15 Average (On EUR/ECU Basis)

Fonte: Ameco 2017

Cosa può essere fatto allora? Secondo il sindacato europeo i lavoratori dell'Est dell'Unione europea necessitano di aumenti salariali maggiori dell'inflazione e slegati dalla produttività, come “compensazione per lo sfruttamento del passato”. “L'Ue e i governi nazionali – afferma ancora Esther Lynch – dovrebbero incoraggiare la contrattazione collettiva e l'organizzazione dei lavoratori all'interno di sindacati forti. Mentre le multinazionali dovrebbero pagare salari più giusti e rispettare il diritto dei lavoratori alla contrattazione collettiva. Perché parecchie di queste grandi compagnie – osserva Lynch – sono molto brave a rispettare i diritti sindacali in casa loro, ma non lo sono altrettanto nell'Europa dell'est”. Infine, la Ces batte sul tasto del salario minimo ( da fissare almeno al 60% della media dei salari nell'Ue occidentale), necessario, secondo il sindacato europeo, a garantire “una soglia di decenza” e a innescare una “più generale crescita dei salari”.