Alle 16,58 del 19 luglio 1992 una Fiat 126 imbottita di tritolo, parcheggiata sotto l’abitazione della madre di Paolo Borsellino, a Palermo, detona uccidendo il giudice e cinque agenti della sua scorta, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Unico sopravvissuto, l’agente Antonino Vullo, scampato alla strage perché al momento della deflagrazione stava parcheggiando uno dei veicoli della scorta. Pochi giorni dopo la tristemente nota strage di via D’Amelio, Rassegna Sindacale pubblica la testimonianza di Nicola Mannino, giovane professore di Palermo impegnato sul difficile fronte dell’educazione nelle aree più degradate della città.

Una testimonianza non solo dell’impegno di tanti giovani contro la mafia – oggi più che mai necessaria, anche dopo gli ultimi avvenimenti al quartiere Zen –, ma anche la dimostrazione toccante e diretta di un rapporto con il giudice Borsellino, di cui si rivelano le forti radici democratiche, ben oltre i limiti della professione. “La mafia domina dove il silenzio regna – si legge nel n. 30 del 3 agosto 1992 dell’allora settimanale della Cgil –. All’insegna di questo slogan noi giovani siciliani abbiamo alzato il tiro, per riscattare la nostra dignità. Accanto a noi si sono schierati, in questi anni, gente semplice, magistrati puliti che hanno tentato di sfidare con le armi della legalità la criminalità organizzata. Uno di questi era proprio il giudice Paolo Borsellino”.

Il primo incontro tra Mannino e il giudice antimafia era avvenuto circa due anni prima all’Istituto tecnico per il turismo di Palermo, dove Borsellino aveva parlato a 1.300 giovani sul tema “Una coscienza più forte per una scuola più unita: oltre il fenomeno mafioso”. “Lui entra – scrive il fascicolo citato di Rassegna – e cerca il professor Nicola Mannino, si meraviglia che un giovane insegnante possa portare i suoi allievi a trattare temi così forti. Nell’aula magna iniziano subito le prime domande. Borsellino incoraggia i giovani a non cedere. ‘Siete voi la paura della mafia – dice – e proprio voi giovani dovete far nascere un’alba nuova, diversa, più limpida’. Saltuariamente legge i suoi appunti. Al termine gli applausi, ci congediamo augurandoci un buon lavoro”.

Ma Borsellino, sapendo che operiamo in maniera attiva nel sociale, ci fa un regalo: ‘Professor Mannino, le lascio i miei appunti così lei avrà del materiale sul quale lavorare. Li tenga cari, però’. Ci risentiamo dopo per telefono per scambiarci dei commenti, mentre io stesso lo invito a essere presente a San Cipirello per presentare il mio secondo libro. Oggi non resta che ricordare. Sfoglio i suoi appunti scritti con inchiostro verde su quella carta intestata Procura della Repubblica di Marsala, e penso. E alla riflessione si accompagna la ferrea volontà di non mollare, poiché Borsellino e tanti con lui hanno seminato certezze in questa terra di Sicilia. Siamo stanchi sì, è vero, ma non sconfitti”.

Proprio a una collega di Mannino – una professoressa – è indirizzata l’ultima lettera, incompiuta, che Paolo Borsellino scrive alle 5 del mattino del 19 luglio 1992: “Gentilissima ‘professoressa’, uso le virgolette perché le ha usate lei nello scrivermi, non so se per sottolineare qualcosa e pentito mi dichiaro dispiaciutissimo per il disappunto che ho causato agli studenti del suo liceo per la mia mancata presenza all’incontro di venerdì 24 gennaio. Intanto vorrei assicurarle che non mi sono affatto trincerato dietro un compiacente centralino telefonico (suppongo quello della Procura di Marsala), non fosse altro perché a quell’epoca ero stato già applicato per quasi tutta la settimana alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, ove poi da pochi giorni mi sono definitivamente insediato come procuratore aggiunto. Se le sue telefonate sono state dirette a Marsala non mi meraviglio che non mi abbia mai trovato. Comunque il mio numero di telefono presso la Procura di Palermo è 091/***963, utenza alla quale rispondo direttamente. Se ben ricordo, inoltre, in quei giorni mi sono recato per ben due volte a Roma nella stessa settimana e, nell’intervallo, mi sono trattenuto ad Agrigento per le indagini conseguenti alla faida mafiosa di Palma di Montechiaro”.

Ricordo sicuramente – prosegue nella sua lettera Borsellino – che nel gennaio scorso il dr. Vento del Pungolo di Trapani mi parlò della vostra iniziativa per assicurarsi la mia disponibilità, che diedi in linea di massima, pur rappresentandogli le tragiche condizioni di lavoro che mi affliggevano. Mi preannunciò che sarei stato contattato da un preside del quale mi fece anche il nome, che non ricordo, e da allora non ho più sentito nessuno. Il 24 gennaio poi, essendo ritornato ad Agrigento, colà qualcuno mi disse di aver sentito alla radio che quel giorno ero a Padova e mi domandò quale mezzo avessi usato per rientrare in Sicilia tanto repentinamente. Capii che era stata comunque preannunciata la mia presenza al Vostro convegno, ma mi creda non ebbi proprio il tempo di dolermene perché i miei impegni sono tanti e così incalzanti che raramente ci si può occupare di altro. Spero che la prossima volta Lei sarà così gentile da contattarmi personalmente e non affidarsi ad intermediari di sorta o a telefoni sbagliati. Oggi non è certo il giorno più adatto per risponderle perché frattanto la mia città si è di nuovo barbaramente insanguinata ed io non ho tempo da dedicare neanche ai miei figli, che vedo raramente perché dormono quando esco da casa ed al mio rientro, quasi sempre in ore notturne, li trovo nuovamente addormentati. Ma è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non lavorare e non ho difficoltà a rispondere, però in modo telegrafico, alle Sue domande”.

A proposito di quella terribile domenica ricorda Manfredi Borsellino, il figlio del giudice, nel volume Era d’estate, a cura di Roberto Puglisi e Alessandra Turrisi, edito da Pietro Vittorietti: “La mattina del 19 luglio, complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all’orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per ‘fottere’ il mondo con due ore di anticipo …. Ricordo che in tv vi erano le immagini del Tour de France, ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel ‘tenere comizio’ come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all’immaginazione”.

Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano, “mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio) e l’agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull’uscio della villa del professore Tricoli, io l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii”.

Ho realizzato che mio padre non c’era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell’attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii e ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d’infanzia che villeggia lì vicino e a grande velocità ci recammo in via D’Amelio …. La mia vita, come d’altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta e abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza se e senza ma a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in ‘familiari superstiti di una vittima della mafia’, che noi vivessimo come figli o moglie di ….., desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva Paolino sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio”.

Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale