Nella crisi il reddito da lavoro autonomo è quello che ha subìto il calo maggiore e il maggiore aumento del rischio “bassa intensità lavorativa”. Lo dice l’Istat (vedi “Reddito e condizioni di vita”, 6 dicembre 2016) in merito all’abbassamento dei compensi. Ma, del resto, non servono neanche troppi studi: è sufficiente discutere con i diretti interessati per rendersi conto di quanto i professionisti, gli autonomi, i freelance stiano soffrendo un calo del reddito importante, che arriva alle volte al fenomeno del “lavoro gratuito”, in cui – in un’eterna corsa verso una formazione perenne – si remunera l’opera del lavoratore con l’esperienza, con il curriculum, con “l’odore del lavoro”, con l'aver “lavorato accanto a uno come me”.

Ora questo atteggiamento non è da demonizzare sempre, a mio parere. Non è scandaloso che un ragazzo appena uscito da un corso di studi passi un periodo di formazione on the job, che impari a lavorare o che, per due o tre mesi, apprenda cosa sia un posto di lavoro, abbia a che fare con un capo, con dei colleghi, con dei compiti da portare a termine. Le cose si complicano quando non si comprende che a permettere questa infinita corsa verso il basso della remunerazione è l’attuale situazione di stagnazione, una crisi la cui unica risposta è stata la diminuzione drastica dei costi e dei diritti del lavoro.

Risposta non solo ingiusta, ma che si è peraltro dimostrata “inefficace”, non andando a incrementare la domanda interna a causa della quota di redditi da lavoro che (nella crisi) è rimasta al palo (tra le cause soprattutto salari reali fermi, alto tasso di disoccupazione e diseguaglianza tra lavoro autonomo “storico” e lavoro autonomo “povero”) e di conseguenza non incrementando gli investimenti, mancando del resto una leva pubblica e un indirizzo degli stessi investimenti verso i nuovi bisogni e l’innovazione. Risultato: lavori che, quando ci sono, vengono sottopagati o malpagati.

Se per i dipendenti esiste l’ombrello del ccnl, per i freelance siamo davvero nella giungla. In questo mondo, i rapporti di forza sono stati – storicamente – determinati dal singolo professionista per sé, come individuo forte della sua professionalità e competenza che riusciva a stabilire il giusto prezzo per la sua opera, aiutato, se fosse stato necessario, da un tariffario minimo depositato presso l’ordine. Negli ultimi anni antecedenti la cancellazione dei minimi (decreto 223/06 “Bersani”), in realtà, questo sistema era già andato in crisi. Le prime avvisaglie di un mercato asfittico, l’aumento dei professionisti in un sistema economico non pronto a servizi di qualità, spesso rendeva necessario bypassare le tariffe minime, fatturando una prestazione inferiore a quella effettivamente svolta.

Il 13 maggio scorso c’è stata nella capitale una manifestazione abbastanza partecipata, organizzata da alcuni ordini, specie quelli degli avvocati di Roma e Napoli. La manifestazione chiedeva la reintroduzione delle tariffe minime imposte per legge – che andrebbero, quindi, probabilmente, decise dagli ordini –. Specificando con chiarezza fin da subito che il ritorno alle tariffe minime non ci piace (salvo alcune eccezioni molto rare) ci sentiamo di ammettere che la domanda espressa da quella manifestazione era una domanda reale e forte. Una domanda giusta. Una domanda di diritti, su tutti il diritto principale dei lavoratori, ovvero il diritto a un compenso/salario/retribuzione/pagamento dignitoso della propria opera.

Come risolvere allora il problema? Credo si debba lavorare su tre direttrici, come tre, a mio parere, sono i gruppi in cui è possibile suddividere i committenti dei freelance. Innanzitutto, il pubblico, che dovrebbe essere Benchmark di lavoro di qualità e ben pagato, e che invece è spesso il peggior committente, quello che paga meno, che ha meno vergogna a chiedere lavoro gratuito, e che fa scontare i maggiori ritardi nei pagamenti. Se Il pubblico, lo Stato e le sue articolazioni, fosse un buon pagatore, se i tanti professionisti che lavorano per il pubblico (avvocati d’ufficio, restauratori e professionisti dell’arte, geometri ecc.) fossero ben pagati, i loro compensi diventerebbero di certo un primo riferimento.

Secondo gruppo di committenti, le imprese. In questi casi, il lavoro di un professionista si inserisce in un processo che crea un valore di cui l’azienda si appropria. Credo sia giusto che il costo della prestazione dell’autonomo risulti almeno pari al costo del lavoro equivalente se fosse stato svolto da un dipendente dell’impresa stessa. Se non fosse ravvisabile una professionalità equivalente, si potrebbe consultare il contratto studi professionali. È aberrante che il lavoro autonomo possa diventare un metodo per fare dumping verso il lavoro dipendente. Se il lavoro dipendente ha un certo costo, vi è un motivo. Una serie di motivi, anzi. Intanto, i ccnl non li fanno solo i sindacati dei lavoratori, ma sono fatti con le controparti. Significa che una firma sotto un contratto dovrebbe certificare che quel “prezzo” è sostenibile per qualcuno, ed è dignitoso per l’altro.

Il lavoro autonomo deve essere utilizzato per sopperire a professionalità mancanti nell'organizzazione aziendale, o per progetti specifici. Utilizzare lavoro freelance per non assumere, per ricattare i dipendenti o anche semplicemente per abbassare i costi e i diritti rappresenta quanto di peggiore un’azienda possa fare verso il lavoro e verso il sistema economico in generale. Significa aderire al paradigma euro liberista, approfittando della debolezza degli accordi collettivi dovuta a una crisi che questa sorta di free riding ha creato o ha comunque alimentato.

È comunque evidente che, qualora il sindacato non riuscisse a contrattare anche per i non dipendenti nei contratti nazionali o di secondo livello, sarebbe necessaria una norma di legge che sancisca questo principio, e che magari conceda del tempo per incrementare questa parte ulteriore dei contratti nazionali, coinvolgendo anche le associazioni di professionisti per elaborare delle tabelle di equivalenza prestazione/tempo/professionalità, la cui complessa redazione non è così immediata, e che di certo non fa ancora parte della cassetta degli attrezzi del sindacato confederale. E se un professionista volesse vendersi a un prezzo inferiore per essere maggiormente competitivo, per guadagnare quote di mercato, o se volesse scambiare un basso costo unitario per un numero elevato di prestazioni che un grosso committente gli può assicurare?

In tali circostanze, la legge e i contratti potrebbero trovare delle deroghe ai minimi e individuare dei parametri attraverso un confronto con i professionisti e le loro associazioni; se tuttavia questa composizione risultasse insanabile, si potrebbe anche accettare di non fornire questa possibilità ai professionisti nei confronti delle committenze organizzate in impresa, allo stesso modo in cui non si permette a un dipendente di scendere sotto il contratto nazionale.

Ma il luogo naturale della concorrenza da wild spirits, è il mercato dei clienti/consumatori. In questo caso, è difficile individuare un’asimmetria paragonabile a quella per cui sono nati i contratti nazionali. È facile individuare chi sia la parte debole tra il dominus di uno studio legale e l’avvocato suo collaboratore che scrive per lui atti per 10 ore al giorno 6 giorni a settimana. Così come si capisce immediatamente chi sia la parte debole tra l’azienda che vuole un sito Internet e uno sviluppatore di pagine web. Ma chi è debole tra l’architetto e il proprietario di casa che si rivolge a lui per una ristrutturazione? E quando un idraulico viene nella nostra abitazione chi è la parte debole? Noi o il lavoratore autonomo? Per questo assume un carattere prioritario agire sugli altri due tipi di committenze, al fine di creare un ambiente “cuscinetto” alla concorrenza selvaggia.

Ciò non vuol dire che non si possa fare nulla nelle attività verso i consumatori. Pensare a tariffe consigliate che assicurino la qualità della prestazione, contrattate da ordini e associazioni di autonomi con le rappresentanze dei consumatori può essere una strada.
Così come sarebbe utile che nel contratto preliminare (obbligatorio) tra cliente e professionista fossero specificate tutte la fasi del lavoro, il prezzo unitario di ognuna, ed eventualmente vi fosse l’obbligo di segnalare il motivo dell’applicazione di una tariffa inferiore a quella consigliata. In questo modo, pur nella libera concorrenza, ogni cliente sarebbe a conoscenza delle parti del lavoro che saranno svolte per un prezzo inferiore alla “tariffa di qualità”. Ovviamente, sono solo ipotesi di lavoro, ma sarebbe opportuno sviluppare un dibattito in merito all'argomento.

A tutto ciò, si aggiunga il fatto che la redazione di un contratto preliminare così dettagliato potrebbe essere anche uno strumento utile per porre rimedio all'altro grande problema che affligge molti professionisti: la difficoltà di incassare i pagamenti per le prestazioni svolte. Se tutti i professionisti avessero sempre un contratto controfirmato dal cliente, questo potrebbe essere addotto come prova dell’accordo sottoscritto tra le parti. E anche in merito al tema dei mancati pagamenti sarebbe possibile un intervento del sindacato, se fosse disposto a tornare alle origini e alla mutualità. Sarebbe infatti interessante immaginare che un’organizzazione dei lavoratori, all’atto di iscrivere autonomi, o professionisti, o freelance, permettesse anche l’adesione a un fondo comune di assicurazione per i crediti non riscossi.

Anche qui, si tratta solo di ipotesi di lavoro, ma sarebbe opportuno un dibattito in merito a quali siano i servizi che quei lavoratori, che per il sindacato sono nuovi, potrebbero chiedere al sindacato confederale che ambisce a rappresentarli. Per rappresentare tutto il mondo del lavoro, nelle sue mutazioni, c’è necessità di mutare anche noi.

Cristian Perniciano è responsabile della Consulta del lavoro professionale Cgil