Sta andando avanti da alcune settimane su Rassegna un interessante ragionamento circa la possibilità di “rispondere” all’economia delle piattaforme con un modello che in qualche modo sia uguale e contrario. Uguale in quanto usa lo stesso concetto di condivisione; contrario in quanto lo applica non alla massimizzazione del profitto, ma alla diffusione di nuove forme di rappresentanza. Se le piattaforme vogliono disintermediare, Idea Diffusa, questo il nome del sistema proposto dalla Cgil, intende invece integrare competenze e opinioni per governare il nuovo (che non sempre è migliore del vecchio, almeno non per tutti) “dalla parte del Lavoro” (scritto con la maiuscola, come raccomanda Aris Accornero) .

Dell’effetto della digitalizzazione del lavoro si è scritto di tutto e il contrario. Alcuni studiosi hanno lanciato avvertimenti catastrofici (fine del lavoro, disoccupazione di massa, scomparsa di centinaia di mansioni e mestieri, lavoratori rimpiazzati da robot mossi da intelligenza artificiale) tanto che un’idea intellettualmente provocatoria, come quella di lavorare a retribuzione zero, rischia di passare da pratica simil-schiavistica a vero programma politico. Dall’altra parte, invece, studiosi altrettanto seri confidano nella capacità – dimostrata in fin dei conti in migliaia di anni di progresso dell’umanità – delle tecnologie innovative di creare prodotti sempre migliori e fantastici che richiamano nuovi consumatori (si pensi alla diffusione a decine di milioni di esemplari di auto, smartphone e robot industriali non solo in Asia, ma anche in Africa) e di conseguenza creano nuove occasioni di lavoro, e magari di migliore qualità.

Impossibile dire, senza prese di parte ideologiche, chi abbia ragione. Se proprio dobbiamo fare previsioni, queste, almeno, traguardino ben oltre la nostra morte. Entrambe le schiere, in ogni caso, portano seri dati statistici e ragionamenti raffinati a supporto delle proprie tesi. D’altronde, anche Marx si era trovato davanti a un dilemma simile: nei famosi “Frammenti sulle macchine”, parte dei Grundrisse, aveva notato che con lo sviluppo della grande industria, “la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità del lavoro impiegato (…) ma dipende invece dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione”. Vale a dire che la scienza si sostituisce al lavoro umano, una condizione che all’epoca era vista come disastrosa e oggi è invece assai ben accolta, almeno da parte del sistema industriale e politico, anche se non dai lavoratori che perdono il posto per l’introduzione di nuove tecnologie.

Qui si innesta, a mia avviso, la domanda che Marco Tognetti pone in un recente contributo apparso su Rassegna: “Possibile che non si possano sfruttare i benefici del digitale senza perdere la qualità, la profondità e la protezione che i corpi intermedi offrono alla società da oltre un secolo?”. In effetti il discrimine è proprio questo: a chi un impiego non lo avrà più, cosa bisogna offrire? Un reddito di sussistenza – o una pensione anticipata – erogato per compensare la pena di non poter più esercitare la propria professione? Processi di formazione che lo rendano adatto ad assumere nuovi incarichi in un mondo della produzione che lo ha reso obsoleto? E davvero la formazione, che sappiamo essere risolutiva per i giovani, può riuscire a “resettare” un lavoratore nella fase finale della sua vita lavorativa? Si tratta di domande alle quali, nonostante i molti sforzi, non abbiamo sinora risposte che convincono pienamente. Anzi, come spesso accade, l’idea della leva formativa diviene una risposta generica a una mancanza di progettualità.

Tanto per fare un esempio: Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, nel loro libro del 2011 Race Against The Machine, partono dalla constatazione che tra il 1995 e il 2011 l’America – nonostante la crisi del 2007-09 in cui si sono persi 12 milioni di posti di lavoro – ha fatto misurare una importante crescita del Pil. Ciò nonostante la forza lavoro impiegata è diminuita del 5 per cento, e i nuovi lavori creati a partire dal 2010 non sono sufficienti neanche a far fronte all’aumento della popolazione. Una prognosi senza appello, quindi. Che viene poi corretta con il libro successivo (The Second Machine Age, del 2014) che offre una ricetta tutt’altro che semplice per fronteggiare l’impatto sociale dell’innovazione: ripensare i sistemi educativi alla luce delle nuove esigenze della “seconda era della macchina”; sostenere e incoraggiare l'imprenditorialità, necessaria per sostituire molti dei posti di lavoro che andranno persi; introdurre un’imposta negativa sul reddito (noi la chiameremmo reddito di cittadinanza), ricetta fatta propria – sebbene all’inverso: tassare l’introduzione di macchine - anche da Bill Gates.

A me pare che confidare così tanto in soluzioni strategiche di lungo respiro non renda un buon servizio a chi il lavoro lo perderà probabilmente in un futuro vicino. Sarà quasi metà dell’umanità, come affermano Frey e Osborne, oppure solo l’8-10 per cento degli occupati come stimato da Stefano Scarpetta dell’Ocse? Certo le quantità sono importanti, ma ancor di più a me paiono cruciali i tempi. Le tecnologie avanzano con enorme rapidità e il matrimonio tra economia, lavoro e piattaforme digitali ha un effetto di iper-accelerazione.  Lavori che oggi sono considerati tutto sommato “al sicuro” per quanto lo saranno ancora? A te che sei un insegnante hanno spiegato che gessetto e lavagna andavano sostituiti con slide e computer. Ti sei adeguato, e ti pare di fare un lavoro migliore che in passato. Poi ti hanno detto che i libri andavano sostituiti con ebook, lo hai fatto anche se ti pare che l’apprendimento sia un po’ peggiorato. Infine, ti hanno detto che dovevi diventare un animatore di comunità di apprendimento online, e che era inutile far venire in classe i discenti. Infine, ti hanno detto che il tuo lavoro era ormai standardizzato, tanto valeva sostituirti con una piattaforma.

Spero che Idea Diffusa serva a ragionare di un mondo digitale che sia per tutti noi, non solo per pochi, e che riesca a realizzare, tramite un modello nuovo di rappresentanza degli interessi  collettivi dei lavoratori, l’ideale che le tecnologie devono portare progresso, non disastri.

Patrizio Di Nicola è docente di Sistemi organizzativi complessi alla Sapienza Università di Roma