Poveri avvocati. Una delle professioni tradizionalmente più gettonate, via di fuga classica dalle “pastoie” di molto lavoro dipendente in Italia – con i suoi stipendi mediamente bassi e la subordinazione a un capo – segna il passo e si adegua ai tempi di una crisi che sembra non risparmiare più nessuno. Gli ultimi dati disponibili, infatti, ci dicono che, a fronte di un 5 per cento di professionisti che guadagnano la metà dell'intero fatturato prodotto dalla categoria, esiste una stragrande percentuale di avvocati che si barcamena con redditi piuttosto bassi. Un quarto delle toghe italiane lo scorso anno ha dichiarato meno di 1.000 euro al mese. Su 240.000 iscritti all'ordine, in 60.000 dunque non guadagnano più di 10.000 euro l'anno e 40.000 sono fermi a 20.000. Insomma: il 7,5 per cento più ricco (16.000 persone su 235.000) si accaparra da solo 3,9 miliardi di euro. Non meravigliano dunque i dati che vedono l’appeal di questa professione ridursi progressivamente negli anni: se nel 2008 i nuovi iscritti all’albo erano 14.237, nel 2005 sono diventati 9.445, con un calo del 33 per cento.

Come è stato possibile arrivare a questa situazione? Le spiegazioni classiche – ci sono troppi avvocati – non convincono. Nella realtà la situazione è più complessa: molti di questi professionisti (in particolare i più giovani e quelli a basso reddito) lavorano in mono-committenza in grandi studi legali, soprattutto nelle città. Sono, cioè, solo formalmente lavoratori autonomi ma, di fatto, galoppano tutto il giorno per i grandi avvocati a fronte di paghe misere: nel settore vengono chiamati sans papier. Per questo la Cgil, insieme ad alcune importanti associazioni che rappresentano gli avvocati (Mga, Anf e Agifor), ha iniziato una raccolta di firme on-line per far decadere quello che tutti ormai considerano un anacronismo: e cioè il divieto per gli avvocati iscritti all’albo di avere un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato, una sorta di contratto, insomma, che migliori la propria condizione, non solo retributiva.

Questi professionisti sono in una situazione paradossale: hanno tutti i vincoli del lavoro subordinato senza però le stesse garanzie in termini di reddito, assistenza e previdenza

“I professionisti che operano in mono-committenza – spiega Cristian Perniciano, responsabile della Consulta delle professioni della Cgil – sono in una situazione paradossale. Lavorano spesso in esclusiva per un capo, che si chiama addirittura ‘dominus’, che decide i loro orari di lavoro, gli mette a disposizione una scrivania, un ufficio. Non hanno nessuna possibilità di essere davvero lavoratori autonomi e di crescere come tali. È una situazione che non può essere ignorata e sulla quale occorre intervenire. L’idea che un avvocato debba per forza essere una sorta di micro-impresa è ormai smentita dalla realtà”.

L'inchiesta in podcast 

Conferma Silvia Simoncini, Nidil: “Il problema è che in un paese in cui la precarietà ha raggiunto dati e cifre incredibili, nessuno rimane più indenne. Le condizioni di lavoro oggettive di molti avvocati ci confermano che costoro non operano in una condizione genuina di lavoratori autonomi. Perciò occorre cercare al più presto una nuova regolazione per questo tipo di lavoro”.

Tre euro l’ora
La condizione degli  avvocati sans papier la conosce assai bene – perché l’ha vissuta sulla propria pelle – Anna Chiara Forte, di Mga (Mobilitazione generale avvocati): “Ciò che una volta poteva anche rappresentare un’opportunità – lavorare qualche anno in uno studio legale per poi avviarsi autonomamente alla professione – si è col tempo tradotto in una realtà totalmente opposta: una volta entrati in questo circuito è difficilissimo uscirne. Questi lavoratori, infatti, devono specializzarsi sempre di più per le esigenze del dominus, ma se uno, per dire, lavora solo su Telecom, una volta che esce dal grande studio è difficile che possa tenersi il cliente. Insomma: si resta prigionieri della propria specializzazione”.

Una proposta di legge della Cgil e associazioni di avvocati punta ad abolire il divieto per le toghe di avere contratti di lavoro subordinati o parasubordinati

Il tutto, attacca Forte, “a fronte di turni massacranti: 12 o anche 15 ore di lavoro al giorno, talvolta anche il sabato o la domenica mattina. E con una retribuzione risibile: perché a quei 1.000 euro al mese vanno ulteriormente sottratte diverse spese e contributi. Dai nostri calcoli un avvocato che lavora in mono-committenza guadagna circa 3 euro l’ora”. Naturalmente non è solo una questione di stipendio: in cambio dei contributi versati alla Cassa non esistono ammortizzatori sociali, congedi di maternità, malattia, e neanche la conservazione del posto quando si è in attesa di un figlio: “Conosco tante colleghe – racconta Forte – che per questo sono state costrette a lasciare il proprio lavoro”.

Sarà per questo che lo scorso anno ben 20.000 avvocati non hanno inviato alla Cassa la dichiarazione per il pagamento dei contributi assistenziali e previdenziali, che pure è obbligatoria ai sensi della legge professionale del 2012. “Il fatto – riprende Simoncini – segnala un malessere che dobbiamo essere in grado di leggere. Questi lavoratori hanno una prospettiva pensionistica lontana e povera e, nel presente, sono quasi completamente privi di una rete assistenziale che li sostenga nei momenti di difficoltà della propria vita professionale: disoccupazione, cali di entrate eccetera”. Welfare, assistenza medica, previdenza: un tempo, quando i fatturati erano alti, ciò non costituiva un problema. Potevano essere acquistati sul mercato: ma se uno guadagna 1.000 euro lordi al mese, come fa? Anzi, in alcuni casi va anche oltre: non acquista e non versa i contributi alla Cassa, perché, a fronte di un esborso che per il suo misero reddito può essere molto pesante, sa che non avrà quasi nessun beneficio, né immediato né futuro.

Lo scorso anno ben 20.000 avvocati non hanno inviato alla Cassa la dichiarazione per il pagamento dei contributi assistenziali: un segno di grande malessere

Quali regole
Torniamo al punto dal quale siamo partiti: i nostri “poveri” giovani avvocati subiscono – da lavoratori di fatto subordinati – il peggio del lavoro autonomo senza ricerverne più i vantaggi in termini economici. Per questo una categoria sempre molto propensa all’autonomia si sta convincendo che bisogna fare qualcosa. A partire dalla proposta di legge contro l’incompatibilità col lavoro subordinato o parasubordinato lanciata insieme alla Cgil. La difficoltà sta nel trovare l’equilibrio giusto:

“La legge professionale stabilisce che l’ordinamento debba agevolare l’accesso alla professione e il suo svolgimento soprattutto in riferimento alle nuove generazioni – dice Luigi Pansini, segretario generale Anf (Associazione nazionale forense) –. Tuttavia, occorre delineare forme di riconoscimento contrattuale che siano compatibili con l'autonomia dei professionisti”. Insomma, per Panzini “non si può affermare tout-court che i giovani avvocati diventino lavoratori subordinati a cui applicare l’articolo 36 della Costituzione sulla giusta retribuzione. La questione, in ogni caso, con questa proposta di legge è finalmente sul tappeto e spero che ciò costringa il legislatore, la politica e le istituzioni forensi ad affrontare il tema”.  

La necessità di un punto di equilibrio tra autonomia e subordinazione è riconosciuta anche dalla Cgil: “Certamente agli avvocati deve essere garantita autonomia di giudizio e indipendenza d'azione. Far decadere l'incompatibilità non basta, perciò: sono tante le particolarità e le fattispecie che dovranno essere normate. L’importante, però, è affrontare finalmente questo problema e l’aver coinvolto le associazioni degli avvocati: partendo da questa disponibilità le soluzioni più adeguate si potranno facilmente trovare”. In ogni caso, aggiunge il sindacalista della Cgil, questi confini oggi non sono più così netti: “A partire dagli ultimi vent’anni, con il capitalismo a rete, il lavoro dipendente si caratterizza sempre più per il suo alto grado di autonomia, specialmente per le alte qualifiche”. E questo vale anche per mestieri più tradizionali: basti pensare ai medici o agli insegnanti, la cui libertà nello svolgimento della propria attività non è certo limitata dall’avere essi stessi rapporti di lavoro dipendente.

Poi vale anche un’altra considerazione: “Siamo sicuri che un avvocato pagato 3 euro l’ora sia effettivamente libero nella sua attività, ad esempio nella scelta di andare a giudizio o di seguire invece un altro cliente”, sottolinea Simoncini. Che aggiunge: “Quando parliamo di autonomia, il problema del reddito non è mai secondario: con uno stipendio adeguato, si può essere più liberi da lavoratori dipendenti che da autonomi sottopagati”.

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Quanto detto finora non vale, per concludere, solo per gli avvocati. L’appeal di quasi tutte le professioni è in calo da alcuni anni. Dai dati del Miur si evince che i candidati agli esami per l’accesso agli albi sono calati di un terzo in dieci anni, passando dai 79.000 del 2006 ai 55.000 del 2015. A fronte di redditi sempre più bassi, in molti preferiscono scegliere strade più facili e meno onerose.

I candidati agli esami per l'accesso agli albi professionali sono diminuiti di un terzo in dieci anni

“Purtroppo questo trend è presente in quasi tutti gli ambiti – conferma Andrea Dili, presidente di Confprofessioni Lazio –, basta scorrere i dati pubblicati annualmente dall’Atep sui redditi dei liberi professionisti. Vale soprattutto per i giovani, che hanno ormai entrate quasi da fame. Bisogna trovare una soluzione a quella che ormai è diventata una vera e propria barriera per l’accesso”. Dopodiché conclude Dili, ci sono anche altri problemi: “A cominciare da quello dell’innovazione e della ormai grandissima concorrenza che esiste nei mercati professionali. Una concorrenza spesso al ribasso, che andrebbe limitata e che colpisce soprattutto i più giovani”.