I dati con cui si presenta questo 2017 sono particolarmente allarmanti e gravidi di incognite. La questione centrale riguarda la dicotomia crescente fra l’andamento dei listini azionari e l’economia reale. Non è una cosa nuova: è così dal 2008, ovvero dalla più grande crisi finanziaria globale dopo quella del 1929. Il fatto nuovo è che si naviga sui massimi di tutti i tempi nei listini di Wall Street. Il Dow Jones, dopo avere traguardato i 20 mila punti il 26 gennaio scorso, si appresta a tagliare anche il nastro dei 21 mila punti. E anche il Nasdaq (il listino tecnologico) si appresta a festeggiare i 6 mila punti.

L’altro fatto nuovo è che tutto ciò avviene in una fase di rallentamento dell’economia americana: nel corso del 2016 il Pil Usa è cresciuto dell’1,6% e quello dell’eurozona dell’1,7%. Negli Usa l’idea che l’aumento dei listini azionari si porti dietro la crescita dell’economia reale è il mantra quotidiano, ma oggi possiamo dire che non è più così. Alcuni giorni fa Il Sole-24 Ore titolava: “Il rischio bolla non spaventa i mercati: dopo l’elezione di Trump, le borse hanno guadagnato 6 mila miliardi di dollari”. È certamente vero che le promesse di Trump di ripristinare le libertà finanziarie (leggermente intaccate dalla Dodd-Frank di Obama) hanno fatto scattare l’euforia (e certamente si tratta di “euforia irrazionale”), ma questa volta il vento non soffia solo in America.

Sia riguardo alla “innovazione finanziaria” della City di Londra, sia riguardo alla regolamentazione soft che in quel Paese si intendono offrire con la Brexit, c’è l’idea che conviene all’Inghilterra uscire dalla regolamentazione finanziaria europea, che è attualmente simile a quella Usa. I dati che seguono illustrano il confronto fra la situazione del marzo 2009 (cioè sei mesi dopo il crack della Lehman del 15 settembre 2008) e il febbraio del 2017.

Dow Jones (Usa): 7.472 20.743
Nasdaq (Usa): 1.491 5.865
Italia: 12.420 19.043
Londra: 3.762 7.274
Parigi: 2.719 4.888
Francoforte: 3.989 11.967
Tokyio: 8.236 19.381

Anche l’occhio del più sprovveduto degli economisti vedrebbe chiaramente che non c’è alcuna relazione positiva fra economia reale e andamenti azionari: anzi, questi dati esprimono semmai una forte asimmetria. Certamente sappiamo che l’influenza dei mercati finanziari sul Pil di Usa e Inghilterra è sempre stato ragguardevole: dal 7% al 12%, ma sappiamo anche che i metodi di calcolo dei vari Pil sono alquanto singolari. In questa fase, tuttavia, non si è concretizzato nulla delle nuove libertà finanziarie di Usa e Inghilterra: i mercati premiano l’attesa.

In tutto ciò ci sono due riflessioni da fare: il silenzio degli economisti e le conseguenze di un’eventuale bolla. Il silenzio degli economisti è il risultato della molta assuefazione ai modelli di analisi dominanti e alle molte promesse che ai governi sono state fatte circa i modi con i quali uscire dalla crisi. Tuttavia, il silenzio degli economisti non è innocente e anzi, a mio avviso, è assai colpevole. Se un’altra bolla è all’orizzonte, come le stime stanno a dimostrare, le conseguenze possono essere davvero molto pesanti. Tre bolle a distanza di pochi anni (2001 bolla tecnologica; 2008 bolla dei mutui sub-prime) renderebbero la situazione insostenibile. La difficile risalita dalle esposizioni debitorie subirebbe il colpo di grazia e una nuova grande redistribuzione del reddito ai danni del ceto medio e dei redditi fissi diventerebbe realtà.

Rispetto al quadro appena delineato aggiungiamo una nota di politica globale, prima facie. Se nel 2008 fu possibile coordinare le politiche monetarie di quasi tutto il mondo (comprese Russia e Cina), oggi questo sarebbe certamente reso difficile dai processi in atto in Inghilterra e Stati Uniti, mentre le conseguenze recessive delle ultime bolle finanziarie si sono scaricate in tutta Europa per effetto dell’importazione delle pratiche finanziarie debitorie. Una risposta allo scoppio di una nuova bolla trova la regolamentazione finanziaria europea ancora a metà strada nella ricerca di equilibri che riescano a superare le deregolamentazioni vigenti: ciò significa che sono presenti tutte le condizioni per una “tradizionale importazione” delle conseguenze di una nuova crisi finanziaria.