La notizia (una buona notizia) è che la m­emoria di Placido Rizzotto a Corleone è diventata ormai memoria condivisa. L’abbiamo capito lo scorso 10 marzo, in occasione delle iniziative per il 69° anniversario del suo assassinio per mano mafiosa, parlando con una maestra di una scuola elementare della cittadina in provincia di Palermo. Ci ha raccontato che il giorno prima i suoi alunni le avevano detto: “Maestra, l’8 marzo abbiamo parlato della donna e delle lotte per la sua emancipazione, domani faremo lo stesso per Placido Rizzotto?”.

È bello pensare che il sindacalista rapito e ucciso da Cosa Nostra nel 1948, così come le lotte contro la mafia e per il diritto al lavoro, siano diventati memoria collettiva e condivisa. È bello (l’abbiamo sentito ancora il 10 marzo nella piazza di Corleone) che nelle loro poesie i bambini definiscano “carnefici e assassini” Luciano Liggio e Michele Navarra e uomo onesto e coraggioso Rizzotto. Ed è un fatto assai significativo anche che quest’anno, nel giorno del ricordo di Placido, i bambini si siano ricordati pure di Giuseppe Letizia, il pastorello di appena 12 anni, ucciso da Navarra, dal “dottor Navarra”, capo dell’omonima cosca familiare, perché aveva visto gli assassini di Rizzotto. Per questo il prossimo anno dovremo fare un altro passo in avanti: costruire un monumento dedicato a Letizia e a tutti i bambini innocenti morti di mafia (e giustamente Giuseppe Massafra, il segretario confederale della Cgil nazionale presente alla manifestazione, si è detto d’accordo con il progetto).

Il piccolo Giuseppe morì alle 13 del 14 marzo 1948, nella sua casa di via Arena 36. Quattro giorni dopo l’assassinio di Placido Rizzotto. Spulciando i registri dello Stato civile del Comune, apprendiamo che il pastorello era nato a Corleone il 4 novembre 1935, in piena epoca fascista. Al momento del suo assassinio, quindi, aveva compiuto da appena quattro mesi 12 anni. A denunciarne la morte non furono i genitori, disperati per il dolore di aver perso il figlio, ma Matteo D’Ippolito, un contadino di 22 anni, insieme a due testimoni: Salvatore Militello, 42 anni, e Leoluca Labruzzo, 32, anche loro contadini. In quegli atti, Letizia risulta ancora formalmente “scolaro”. Ma la verità è che a scuola Giuseppe non andava da tempo, perché aiutava il padre nei lavori di campagna.

Anche quella maledetta sera del 10 marzo 1948 il piccolo Letizia era a custodire il suo gregge in contrada Malvello, proprio come gli aveva raccomandato il padre. E fu lì che vide arrivare la Fiat 1100 scura di Luciano Liggio, dove i mafiosi avevano caricato a forza il segretario della Camera del lavoro. Col cuore in gola, Giuseppe vide i mafiosi accanirsi con una violenza inaudita contro il povero Rizzotto e, al termine dell’aggressione, vide Luciano Liggio sparargli a bruciapelo tre colpi di pistola. La mattina dell’11 marzo, Giuseppe fu trovato febbricitante dal padre: tre giorni più tardi morì. Durante il delirio, il ragazzino accennò all’assassinio di un contadino, il cui corpo era stato fatto a pezzi. Fece anche dei nomi, ma i genitori si guardarono bene dal riferirli. Erano paralizzati dalla paura.

Il caso Letizia esplose con forza nell’opinione pubblica grazie al primo servizio pubblicato da L’Unità di domenica 13 marzo: “C’è motivo di pensare, e molti in paese sono a pensarla così – scrisse l’allora quotidiano del Pci – che il bambino sia stato involontariamente testimone dell’uccisione del Rizzotto e che le minacce e le intimidazioni lo abbiano talmente atterrito da provocargli uno shock e come conseguenza di esso la morte”. Ancora più esplicito il settimanale La Voce della Sicilia, che il 21 marzo così titolò: “Un bimbo morente ha denunciato gli assassini che uccisero Placido Rizzotto nel feudo Malvello”.

Nell’articolo si sosteneva che il segretario della Camera del lavoro di Corleone sarebbe stato sequestrato dalla mafia con l’aiuto di Pasquale Criscione e condotto a Malvello, “dove un ragazzo, Letizia Giuseppe, rimasto in quel feudo per sorvegliare il gregge, avrebbe visto gli assassini compiere il delitto”. “Atterrito e sconvolto per la scena terribile che si sarebbe svolta sotto i suoi occhi – proseguiva l’articolo – il ragazzo avrebbe avuto delle allucinazioni e nonostante le cure prodigategli dai medici dottori Navarra e Dell’Aira sarebbe morto dopo pochi giorni per cause non accertate”.

Ma le rivelazioni non si fermarono qui. Dopo pochi giorni (il 26 marzo 1948), lo stesso giornale incalzava con un altro articolo dal titolo inquietante: “Per avvelenamento o per trauma psichico l’allucinazione e la morte del bambino?”. Nel servizio si faceva notare la contraddizione tra la diagnosi formulata dal dottor Ignazio Dell’Aira, dove si parlava genericamente di “tossicosi”, e la cura dallo stesso medico prescritta al ragazzo a base di “Serenol”, che era un calmante e non un disintossicante. “Noi pensiamo che il dottor Dell’Aira potrebbe dare altri utili chiarimenti...”, affermava l’articolista.

Gli inquirenti, stranamente, non ebbero nemmeno il sospetto che Giuseppe Letizia fosse morto in seguito alle “cure” praticategli da Navarra e Dell’Aira. E trascurarono la circostanza che il secondo, “apparentemente senza alcun motivo, si affrettò a chiudere lo studio, salire su una nave e rifugiarsi in Australia”, scrive Marco Nese (“Nel segno della mafia”). Mentre, invece, diedero eccessivo credito ai genitori del Letizia, che, interrogati dai carabinieri, “esclusero che il figlio avesse narrato di avere assistito all’uccisione di Placido Rizzotto”.

Eppure non doveva essere difficile immaginare che la mafia fosse in grado di usare mezzi molto persuasivi per impedire testimonianze pericolose. Si ebbe l’impressione che polizia e magistratura volessero chiudere tutto nel più breve tempo possibile, senza “disturbare” il capofamiglia don Michele Navarra. E ci riuscirono, perché nessuno indagò sulla morte di Giuseppe Letizia. E sulla tragica vicenda si spensero per sempre i riflettori. Solo nel 2011 il Comune di Corleone dedicò una strada al pastorello. E nel giugno del 2012, dopo i funerali di Stato per Placido Rizzotto (24 maggio), la scuola media “Giuseppe Vasi” di Corleone, nel corso di una toccante cerimonia, volle consegnare ai suoi familiari un diploma di licenza media alla memoria del piccolo Letizia, che aveva dovuto lasciare gli studi quasi senza averli mai iniziati.

In quei giorni non fu possibile trovare una sua foto, per il semplice e triste motivo che a Giuseppe nessuno aveva mai fatto una foto. A quei tempi, i poveri la foto la facevano solo quando andavano a prestare servizio militare o quando si sposavano. Letizia, a causa della sua prematura scomparsa, non aveva avuto il tempo di fare né l’una, né l’altra cosa. E non esiste nemmeno una sua tomba. Allora fu sepolto nella nuda terra e, dopo alcuni anni, i suoi resti furono raccolti e depositati nell’ossario comunale. Un motivo in più per battersi, a 69 anni dal suo assassinio, per la realizzazione di un monumento in sua memoria.