Una luce fioca illumina il cammino dei lavoratori negli Stati Uniti d’America. I lampioni sono fulminati, il sentiero è in penombra. Il nuovo re, Donald Trump, invia messaggi ambigui. Alza muri contro gli immigrati, mette al bando i musulmani, abolisce trattati di libero scambio, promette fabbriche e occupazione ai cittadini America First, rilancia petrolio e trivelle, e smantella il sistema sanitario di Obama. Non è decifrabile, questo monarca. Si nasconde dietro la maschera di provvedimenti frenetici. Ma sul suo regno, poco o molto che duri, non sorge il sol dell’avvenire. E rischiano di tramontare diritti e comunità. Trump sembra la minaccia più grande di sempre. Proprio a causa della sua ambiguità ideologica, programmatica. Ma, anche se il presidente uscisse di scena, la situazione non diventerebbe rosea all’improvviso, con tutti i rami del potere in mano al partito Repubblicano (vedi sotto). Il mondo del lavoro sarà all’altezza delle battaglie che lo attendono? E, dopo otto anni di amministrazione Obama, è più forte o più debole?

Lo chiediamo a Deborah Bell, dirigente sindacale dell’American Federation of Teachers (Aft), responsabile della sezione 2334 del Professional Staff Congress/CUNY (la City University of New York). Il suo sindacato rappresenta 25mila iscritti tra personale docente e amministrativo. E lei non ha dubbi: “La più grande sfida per il mondo del lavoro americano – spiega Bell a Rassegna – viene dall’ascesa dell’egemonia della destra. Trump aprirà le porte all’intensificazione di politiche antisindacali, politiche cui i Repubblicani del Congresso puntano da anni e che non solo indeboliranno la forza contrattuale delle unions nei confronti dei datori di lavoro, ma ne saboteranno pure la capacità di finanziare candidati Democratici e progressisti”.

“Durante gli anni di Obama i tassi di sindacalizzazione nel settore privato non hanno smesso di declinare. Certo, provvedimenti positivi non sono mancati, ma i sindacati si sono concentrati troppo sulle politiche nazionali e sul partito Democratico, così gli iscritti hanno perso voce e le organizzazioni dei lavoratori, intese come forze di cambiamento, sono divenute più passive”. Riguardo alla nuova era di Trump, però, non c’è unità tra le centrali sindacali: “Nel settore delle costruzioni e delle manifatture – precisa Bell – c’è chi è convinto che Trump creerà e favorirà il lavoro. In altri settori, ovviamente, c’è chi non la pensa affatto così”. Ma, se vogliono uscire dall’angolo, le unions “dovranno diventare più attive in ogni singolo Stato, e dovranno trovare interlocutori politici davvero progressisti”.

(Una dimostrazione contro la nomina di Andrew Puzder a segretario del Lavoro. Il 15 febbraio 2017 Puzder ha rinunciato alla carica)

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«Preferendo Clinton a Sanders il mondo del lavoro ha perso un’occasione straordinaria»

Non sempre – sembra questa la riflessione – i sindacati hanno scelto gli alleati giusti. È un ragionamento che ritroviamo nelle parole di Steve Fraser, storico dell’economia e del lavoro, redattore della rivista New Labour Forum e autore di diversi libri, l’ultimo dei quali è The Limousine Liberal: How an Incendiary Image United the Right and Fractured America. “Alle scorse primarie del partito Democratico – dice lo studioso a Rassegna – il mondo del lavoro ha perso un’occasione straordinaria. Credo che in molti siano d’accordo sul fatto che, se una Hillary Clinton così poco amata ha potuto superare Trump di quasi tre milioni di voti, Bernie Sanders, molto più rispettato, avrebbe trionfato, catturando anche buona parte di quel fervore anti-establishment che ha dato energia alla campagna di Trump. Però – continua Fraser – i più importanti sindacati hanno preferito allinearsi con Clinton, nel timore di perdere il sostegno dei circoli preminenti del partito Democratico. Negli anni di Obama sono stati presi importanti provvedimenti che hanno favorito la sindacalizzazione e il mondo del lavoro, ma di fondo, e da decenni, le politiche neoliberali, Obama e Clinton inclusi, hanno colpito o ignorato i bisogni dei lavoratori americani, il che spiega in buona parte perché questi abbiano abbandonato i Democratici per Trump”.

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In teoria, a questo punto, sindacati e Democratici dovrebbero coalizzarsi contro Trump. Ma – prosegue Fraser – è più facile a dirsi che a farsi: “Nel settore delle costruzioni i sindacati (tra cui Nabtu e Liuna ndr) non contestano le politiche pro combustibili fossili di Trump, perché ovviamente trivellare in cerca di gas e petrolio o costruire oleodotti crea posti di lavoro. In materia di commercio, unions manifatturiere come la Uaw (United auto workers) vedono di buon occhio il ritiro di Trump dal Tpp (il Partnerariato trans-pacifico, ndr) e la promessa di uscire anche dal Nafta (l’Accordo nordamericano per il libero scambio, ndr). Tutti temi che appartenevano anche all’agenda di Sanders, ma, ora che sono diventati proprietà esclusiva del nuovo presidente, potrebbero causare incertezza e ambivalenza in un mondo del lavoro chiamato comunque ad affrontare un’amministrazione per molti versi apertamente e violentemente ostile al lavoro organizzato. Certo è difficile prevedere come andrà a finire: la natura volubile di Trump, e la resistenza che incontrerà nelle sue stesse fila su alcuni provvedimenti, lo impediscono”.

Per Deborah Bell, però, le ‘cordialità’ tra lavoratori e Trump non dureranno molto: “Al di là di qualche proposta keynesiana sui lavori pubblici, il nuovo presidente non ha idee praticabili per una ‘sana’ espansione del lavoro. Inoltre il protezionismo e le guerre sulle tariffe commerciali finiranno col causare costi al consumo più alti, il che non sarà certo apprezzato dai lavoratori americani. E poi tutti quei miliardari nominati da Trump in posizioni chiave del suo Cabinet (come il neoministro dell’Istruzione Betsy DeVos, vedi video sotto, ndr), gente che si è arricchita proprio grazie al libero scambio, gli consentiranno davvero di comprometterlo?”.


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«Non ci lasceremo dividere tra "noi" e "loro"»

Se c’è un tema sul quale i sindacati potrebbero convergere, è quello delle politiche xenofobe e anti-immigrazione di Trump. Al riguardo Richard Trumka, presidente dell’Afl-Cio, è stato molto netto: “Non ci lasceremo dividere tra ‘noi’ e ‘loro’”. Resta da vedere quale sarà l’ascendente morale e politico di una posizione del genere, in un paese in cui l’odio razziale riemerge ciclicamente, e ora potrebbe trovare legittimazione persino a Washington. “Gli Stati Uniti – spiega sempre Bell – hanno una lunga storia di xenofobia e, al tempo stesso, di accoglienza degli immigrati. Credo che la maggior parte dei sindacati si opponga ai provvedimenti anti-immigrazione di Trump, sebbene molti leader sindacali nazionali non si siano espressi sugli ultimi decreti del presidente, con la sola eccezione di insegnanti e lavoratori pubblici. Vivo a New York, una città che si autodefinisce sanctuary city (dove gli immigrati non in regola godono di maggiori libertà, ndr), ma ho l’impressione che stia crescendo una divisione tra zone urbane e rurali. I sindacati hanno ancora un ascendente etico e morale sui loro iscritti, ma se vogliono esercitarlo dovranno comportarsi come istituzioni democratiche, dove ciascuna voce può farsi sentire”.

Il 20 gennaio 2017, nel Minnesota, a duemila chilometri da Washington e contemporaneamente alla cerimonia d’insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti, gli addetti alle pulizie della catena di superstore per la casa Home Depot sono scesi in sciopero. Lavoratori in appalto, molti di loro immigrati. Il sito Truthout, in un servizio, ne ha raccontato la storia. Venti, trent’anni fa lavoratori con queste mansioni sarebbero stati assunti direttamente da Home Depot. Poi s’è innescata la spirale delle esternalizzazioni, e i subappaltatori, nelle gare per assicurarsi le commesse, si sono mantenuti competitivi risparmiando sul costo della manodopera. Quindici anni fa un addetto alle pulizie guadagnava circa 10 dollari l’ora e lavorava assieme ad altri cinque compagni per pulire un singolo locale commerciale. Ora ne guadagna 7,25 l’ora, di dollari, e lo stesso grande magazzino lo pulisce insieme ad altri due colleghi. Paghe più basse, maggiore fatica: per questo hanno scioperato, col sostegno del Centro de Trabajadores Unidos en Lucha (Ctul). Uno di loro, Luciano Balbuena, ha spiegato a Truthout che si tratta di una battaglia contro paghe da fame, ma anche contro Donald Trump “che sostiene i salari bassi e ha dichiarato pubblicamente che i lavoratori non meritano stipendi più alti”.

(Audio del servizio di Truthout)

“Lo sappiamo – ha detto a Truthout Veronica Mendez Moore, dirigente del Ctul –: l’agenda di Trump è completamente anti-lavoratori, anti-immigrati, anti-donne, anti-tutto ciò che rappresenta la nostra comunità. Pensiamo che sia cruciale resistere alla sua agenda di odio e divisione”. Lo sciopero a Home Depot, “i cui proprietari sono importanti sostenitori di Trump”, conclude Mendez Moore, è stato un atto concreto e simbolico, politico contro Trump, “prima che ci porti via molti di quei diritti per i quali abbiamo lottato per anni”.

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Le priorità del sindacato sono cambiate. Si tratta di resistere

Andare all’attacco è una strategia. Un’altra è attrezzarsi per difendersi, per sopravvivere. L’agenzia Bloomberg riporta che la centrale sindacale Seiu ha pianificato, in un documento interno, un taglio nel bilancio 2018 del 30% (e del 10% nel 2017). Seiu, coi suoi 2 milioni di iscritti tra governo, sanità e servizi nel settore edile, è il secondo sindacato degli Stati Uniti. Negli scorsi anni è stato capofila della campagna per innalzare il salario minimo (“Fight for $15”), ha svolto un ruolo chiave nell’approvazione dell’Obamacare (la riforma delle assicurazioni sanitarie), e si è speso in modo consistente a sostegno di Hillary Clinton. Ora le priorità sono cambiate. Si tratta di resistere ai prevedibili danni che verranno da un potere federale controllato dalla destra in tutti e tre i suoi rami (esecutivo, legislativo, giudiziario). La presa Repubblicana di Washington porta molte minacce – scrive ancora Bloomberg –, dallo smantellamento del sistema sanitario all’estensione a livello federale del “Right to Work”, una legge approvata in molti Stati a guida Repubblicana che consente ai lavoratori di non pagare le quote d’iscrizione ai sindacati che li rappresentano. Diventerà decisivo, poi, il ruolo della Corte Suprema, dove il nuovo giudice nominato da Trump potrebbe assicurare il quinto voto conservatore in tutte le cause che hanno al centro il lavoro. Con una Corte a maggioranza conservatrice sarà più facile demolire molti provvedimenti che tutelano il lavoro organizzato. Di fronte a un simile assedio, il sindacato ha deciso di “assorbire le sconfitte a breve termine, e di rafforzarsi per tornare a vincere nel futuro”.

Ma di quale futuro stiamo parlando? E, a proposito di Obamacare, legislazione messa nel mirino da Trump sin dal primo decreto presidenziale, i prossimi mesi cosa porteranno? “Di recente – racconta Deborah Bell – un articolo del New York Times ha elencato quali prestazioni rischiano di essere presto soppresse, e quali invece potrebbero restare. Dell’Obamacare hanno beneficiato tutte quelle persone prive di un’assicurazione sanitaria fornita dal datore di lavoro. E queste persone sono sempre di più. Non è però il caso dei lavoratori sindacalizzati, che hanno quasi tutti una copertura sanitaria. Ma le unions si sono rese conto che è nel loro interesse essere più coinvolte nel regolare i servizi sanitari e nel controllarne i costi, visto che i datori di lavoro cercano di addebitarli sempre più ai loro dipendenti. Finora l’Obamacare ha avuto più successo nell’allargamento dei beneficiari, che nel controllo dei costi. Nel paese – prosegue Bell – sta crescendo un movimento che punta a responsabilizzare ogni membro del Congresso per i servizi sanitari persi dai lavoratori (ad esempio i servizi sanitari riproduttivi per le donne). L’enorme successo delle womens’ marches in tutti gli Stati Uniti aiuta questa campagna, in cui sono ampiamente coinvolti alcuni sindacati, dai servizi al pubblico impiego”.

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«Il controllo retorico dei media»

Lo scrittore Ron Rosenbaum, in un articolo pubblicato dalla Los Angeles Review of Books, ha paragonato Trump a Hitler. Materia delicata, scivolosa, a rischio di banalizzazioni e raffronti impropri. Per tutta la campagna elettorale Trump aveva subito attacchi del genere (i discorsi di Hitler sul comodino, ecc.), ma questa volta, a urne chiuse, ha parlato un ‘esperto’ della materia, autore di un libro che si intitola Explaining Hitler. Per Rosenbaum, Trump e Hitler avrebbero in comune una “tecnica segreta - scrive Rosenbaum -, una sorta di controllo retorico che entrambi hanno usato sui loro avversari, specialmente i media”. Trump sarebbe riuscito a non farsi prendere sul serio neppure quando adottava “i comportamenti più oltraggiosi e vergognosi”, sostiene Rosenbaum. E aggiunge: “Non lo abbiamo preso sul serio” proprio perché i suoi comportamenti erano “studiati per distrarci. È stata questa la sua strategia segreta, la chiave del suo successo: non puoi opporti a Trump perché non sai dove stia Trump. Non puoi riconoscerlo colpevole, non puoi riconoscerlo affatto. La tattica ha funzionato”.

L’ambiguità ideologica, la maschera, è un tratto storico del fascismo, dei fascismi. “Eppure – argomenta ancora Steve Fraser – Trump è piuttosto non-ideologico. È un dilettante, un narciso legato a nient’altro che all’autopromozione. Potremmo definire come potenzialmente fascisti alcuni elementi che hanno dato forza alla sua campagna: ad esempio la combinazione di sentimenti anti-capitalisti e xenofobia, l’anti-elitarismo, l’ammirazione per i ‘grandi uomini’ e gli atteggiamenti bellicosi da uomo forte. La domanda è: è possibile che il populismo di destra stia tracimando nel fascismo? Penso che stiano emergendo sulla superficie della vita pubblica alcuni aspetti di un fascismo indigeno, ma Trump, per le sue carenze politiche e ideologiche, non ne è il leader più adatto”.

Molti pensano che questo presidente non durerà a lungo. Per Fraser l’avventura di Trump potrebbe durare anche meno di un anno, “vista l’enormità di attriti interni e opposizione esterna che la sua amministrazione sta incontrando. Le divisioni interne erano già lì quando iniziò la sua scalata all’establishment Repubblicano. Sono troppe per elencarle, ma emergono nitidamente in temi chiave per le élites Repubblicane, come i liberi scambi commerciali e l’immigrazione, mentre sul conservatorismo sociale la destra religiosa già inizia a considerare Trump inaffidabile e insincero”.


“Poi, naturalmente – prosegue Fraser –, c’è la protesta esplosa al momento del suo insediamento, e dopo i primi provvedimenti firmati, e dopo le nomine di miliardari senza alcuna competenza nei ruoli centrali dell’amministrazione. Dal momento che i maggiorenti Repubblicani non hanno mai apprezzato Trump, che durante la campagna presidenziale non ha perso occasione per screditarli, possiamo presumere che gli stiano dando quel tanto di corda che basterà poi a impiccarlo (ossia sottoporlo a impeachment)”.

Quindi verrebbe il turno del vicepresidente Mike Pence, un uomo “integralmente di destra, pragmatico, paziente, non eccentrico”: così lo definisce Deborah Bell.

Come si diceva all’inizio, una luce fioca illumina il cammino dei lavoratori negli Stati Uniti d’America.

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