È scomparso a Roma il 29 novembre Claudio Pavone, uno dei maggiori storici italiani. Partigiano, direttore della rivista “Parolechiave”, docente all'Università di Pisa e già presidente della Società italiana per lo studio della Storia contemporanea, dopo la guerra Pavone ha avuto un ruolo fondamentale nell'organizzazione dell'Archivio centrale dello Stato. A lui si devono alcune delle opere più famose e innovative della storiografia italiana: in particolare, “Alle origini della Repubblica” e “Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza”. Specialmente quest'ultima opera del 1991 divenne un titolo chiave nello studio della storia: Pavone vi sostenne che la Resistenza, oltre a un conflitto di liberazione dai nazifascisti, fu anche una guerra civile combattuta tra gli italiani. La sua ipotesi innovativa suscitò un ampio dibattito, ma la sua stessa esperienza di resistente – insieme alla solidità degli argomenti – lo resero in breve un insostituibile punto di riferimento per tutti gli studiosi interessati a quel controverso periodo storico. Pavone avrebbe compiuto 96 anni proprio oggi, 30 novembre. Lo ricordiamo con la pubblicazione di un ampio stralcio di un'intervista che “Rassegna Sindacale” gli fece nel 1994, inserita all’interno di uno “Speciale 1° maggio” dedicato al tema “Operai e Resistenza”

Sorride, Claudio Pavone, nel ricordare il suo arresto, a Roma, nell'ottobre '43: “Fui preso perché andai a mettere dei manifestini nella macchina di Guido Leto, il capo dell'Ovra”. “Ovviamente senza sapere che era la sua auto”, aggiunge. Un'ingenuità straordinaria, che gli costerà quasi un anno di reclusione nel carcere di Castelfranco Emilia, ma non gli impedirà, comunque, di partecipare alla Resistenza. Purtroppo senza i compagni della primissima esperienza cospirativa, Eugenio Colorni, il giovane e brillante dirigente socialista massacrato dalla banda Koch pochi giorni prima della liberazione di Roma, o Giuseppe Lo Presti, ucciso alle Fosse Ardeatine o, ancora, quegli operai del Poligrafico conosciuti durante il breve periodo della clandestinità nella capitale e fucilati poi con Bruno Buozzi, alla Storta, dai tedeschi in ritirata verso il Nord. L'ingenuo ventenne senza alcuna esperienza cospirativa è costretto subito, dunque, a vivere il dolore e la perdita: come per tanti suoi coetanei, scegliere significa affrontare immediatamente prove durissime.

Pavone, che insegna Storia contemporanea all'Università di Pisa, è ritornato spesso, passandoli al setaccio dell'analisi critica, su quegli anni. Insieme alle vicende istituzionali dell'Italia postunitaria, la sua ricerca si è appuntata soprattutto sul nodo fascismo-guerra-Resistenza. Temi sistematizzati, com’è noto, in Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (Torino, Bollati Boringhieri, 1991), volume che molto ha fatto discutere per il particolare taglio interpretativo con cui le vicende italiane di quegli anni vengono affrontate. Giusto, quindi, mentre si celebra mezzo secolo di quell'evento cruciale che fu lo sciopero operaio che bloccò le fabbriche dell'Italia occupata dai nazisti, dare inizio a questa conversazione chiedendogli come si può sfuggire alla retorica che appunto alle celebrazioni sempre si accompagna, che significato ha, oggi, ricordare la Resistenza. In una situazione, peraltro, che vede affermarsi nel paese una destra dalla fisionomia particolarmente preoccupante.

Pavone: La vittoria della destra, di questa destra, è una ragione che si aggiunge a un motivo presente già da qualche tempo. Al fatto, cioè, che viviamo in un periodo di grave crisi del sistema politico; crisi che si intreccia con una crisi, ancora, della stessa coscienza, della stessa identità nazionale. Tornare alle tavole di fondazione della Repubblica, alla lotta antifascista e alla Resistenza è quindi una cosa positiva, salutare. I guai cominciano quando, in questa rivisitazione, invece di approfondire, distinguere, liberarsi della retorica che indubbiamente si è accumulata, si opera un mero capovolgimento di giudizio. E invece di capire meglio cos'è stata la guerra di liberazione e quale peso ha avuto nella storia italiana — cosa che la storiografia aveva cominciato a fare, in particolare quella di sinistra — la Resistenza, da atto di fondazione, diventa improvvisamente, come ha detto Neri Serneri, vizio d'origine della Repubblica. Ritornare ai momenti iniziali è doveroso, anche perché la cancellazione della memoria è un fenomeno negativo, che va contrastato. I giudizi nuovi però non si formulano chiamando bianco ciò che era nero e viceversa. Oppure appiattendo tutto e tutti. Inutile, in questo senso, fare le pacificazioni tra fascisti e antifascisti mezzo secolo dopo. Si offendono gli stessi fascisti, che se non scherzavano vuol dire che volevano un'Italia diversa da quella venuta dopo il 25 aprile. E che è tanto diversa da permettere ai fascisti, appunto, di dire e fare liberamente ciò che vogliono. Se avessero vinto loro temo che per noi non sarebbe stato lo stesso.

RS: Lei ha dato al suo libro un sottotitolo: “Saggio storico sulla moralità nella Resistenza”. Cosa significa?

Pavone: Volevo segnalare il tentativo di uscire da una visione puramente politica. Naturalmente questo non vuol dire una condanna, un disdegno nei confronti della politica. La parte della politica nella storia è fondamentale. Però anche i comportamenti politici discendono da moralità individuali, convinzioni profonde, ideali, frustrazioni, illusioni, speranze, insomma da tutta una serie di elementi soggettivi, personali che devono aiutare a far capire perché gli uomini hanno compiuto certe azioni e non altre. Altrimenti si cade nell'idea che l'unica cosa che meriti di essere considerata è “la linea del partito”. Tutte le discussioni sulla storia della Resistenza italiana si sono troppo a lungo concentrate intorno alle sottigliezze della linea di Togliatti, piuttosto che di Nenni o di De Gasperi. Cose che, per carità, vanno prese in considerazione. Ma l'interesse di una ricostruzione è anche capire perché quei leader hanno poi trovato milioni di uomini che han dato loro ascolto. E questo ascolto non derivava solo dalla giustezza della linea politica. Perciò ho parlato di moralità “nella” e non “della” Resistenza. Il mio intento non era trovare la morale della lotta di liberazione. Ho pensato che in questa fase degli studi, dell'evoluzione della coscienza pubblica, fosse più utile vedere quali erano i comportamenti morali di coloro che hanno partecipato alla Resistenza, come si misuravano convinzioni, culture, tradizioni familiari con alcuni grossi nodi, che rappresentavano appunto problemi di moralità, come lo scegliere tra un campo e l'altro in piena autonomia personale. Perché dopo l'8 settembre, nello sfacelo delle strutture statali, molti italiani si sono trovati a scegliere.

RS: Un momento in cui c'è stato poco spazio per il trasformismo.

Pavone: Certo. Oggi, alcuni di quelli che vogliono svalutare l'importanza della lotta di allora dimenticano proprio questo dato. Il ritorno del trasformismo è venuto alla fine, nelle ultime settimane, quando, visto come stavano andando le cose, molti sono saltati sul carro del vicitore.

RS: Quindi l’8 settembre produce una rottura…

Pavone: Una rottura positiva che, al contrario di ciò che dice oggi De Felice, non distrugge l’identità nazionale. Anzi, dopo le lacerazioni della guerra fascista, la rafforza. Perché la sottopone al vaglio di una dura prova.

RS: Per una dura prova non passò solo chi andò in montagna a combattere, ma anche chi rimase in fabbrica o nei campi. Cominciamo, nell’affrontare l'oggetto specifico di questa conversazione – il rapporto tra conflitto sociale e guerra partigiana –, dagli ultimi mesi di vita del regime, da quello sciopero del marzo ’43 che rompe vent’anni di silenzio della classe operaia. Renzo De Felice tende a svalutare il valore politico di quell’agitazione. Al contrario, la storiografia di sinistra, soprattutto quella comunista, ne ha a lungo enfatizzato la carica antifascista, mettendone in secondo piano le motivazioni economiche. Dov’è il giusto mezzo?

Pavone: Bisogna avere un minimo di senso storico. Uno studioso inglese purtroppo scomparso, Tim Mason, ha fatto vedere bene come lo sciopero del ’43 sia stato innanzitutto un movimento della classe operaia torinese. Un movimento di cui piccoli nuclei comunisti han cercato di prendere la guida, ma quando lo sciopero era già in piedi. E questo è un primo dato sul quale credo si potrà essere d’accordo. Ma non si può ignorare che in un regime come quello fascista, per di più in guerra, che aveva considerato la soppressione dello sciopero come un suo elemento costitutivo, e con un alleato tedesco che su questo non scherzava, il fatto che ci si muova, si scioperi appunto, ha di per sé un significato politico.

R S: Tuttavia lo sciopero non è stato la spallata che ha fatto crollare il regime.

Pavone: Non c'è un nesso diretto tra gli scioperi e la caduta del fascismo. Il fascismo cade perché, essendo ormai persa la guerra, e nella convinzione che l'arrivo degli Alleati significherà il crollo del regime, il re, i gerarchi dissidenti, le alte sfere militari decidono di aprire il problema della successione. Tuttavia quel movimento ha accelerato le manovre in corso per la defenestrazione di Mussolini. Gli scioperi suonano come un campanello d'allarme: la successione, una volta arrivati gli Alleati, potrebbe non essere indolore. Allora, perché la situazione non sfugga di mano, è necessario giocare d'anticipo.

R S: Il 25 luglio il fascismo cade. Mussolini, messo in minoranza dal Gran Consiglio, viene arrestato, il maresciallo Badoglio riceve dal re l'incarico di formare il governo. Ma la caduta del regime non significa la pace: “La guerra continua” dice Badoglio nel suo proclama. E con la guerra continuano le sofferenze degli italiani. Il sindacato fascista viene sciolto, permessa addirittura, a un certo punto, la ricostituzione delle commissioni interne. Ma le agitazioni vengono represse con violenza, spesso si spara sulla gente che manifesta.

Pavone: Una conferma di quel che dicevo prima. Chi è riuscito a fare il colpo di Stato, senza una sia pur minima reazione fascista, vuol garantirsi che non accada nulla. Ecco allora la durissima circolare Roatta, che ordina di sparare sui dimostranti.

RS: Dopo l'8 settembre cambia tutto. L'Italia si divide in due e nel Nord dominato dai tedeschi e dai fascisti della neonata Repubblica sociale le fabbriche conoscono, nel novembre-dicembre, una nuova ondata di agitazioni.

Pavone: II ritorno dei fascisti, la durezza dell'occupazione tedesca, il peggioramento delle condizioni di vita rendono la situazione davvero insostenibile. E a questa situazione i fascisti non riescono a porre rimedio con la demagogia del ritorno alle origini. Ritorno alle origini, poi! Le origini erano bastonare gli operai, picchiare i contadini, incendiare le Camere del lavoro. Nella mitologia fascista essere di sinistra significa essere dei randellatori, dei violenti. Ma gli operai capiscono. Sono passati appena vent'anni, la memoria delle origini è ancora fresca.

RS: E il tentativo di ritrovare una legittimazione, in fabbrica, attraverso l’elezione delle commissioni interne, non sortisce alcun effetto.

Pavone: Non fu un fallimento totale. Ecco, questo è un caso in cui la storiografia resistenziale ha avuto delle indulgenze di tipo retorico, o apologetico. Non ci fu il fiasco di cui poi s'è detto. È forse l'unico punto, questo, in cui le tesi operaiste — la primazia dell'interesse di classe economicisticamente inteso e l'indifferenza, da parte operaia, rispetto alla politica — possono aggrapparsi a un dato reale. Perché certe volte, pur di avere un rappresentante per la distribuzione di legna, o di vestiti, si poteva anche mandare qualcuno a trattare. Nel complesso, comunque, le elezioni di commissione interna furono un fallimento.

RS: L'altra ondata di scioperi parte nel marzo '44. Quale significato ebbe?

Pavone: II valore dello sciopero del '44 è molto grande. Perché, come si è detto più volte, fu il più grande sciopero operaio nell'Europa occupata dai nazisti. Per le forze antifasciste, i comunisti in primo luogo, ma un po' anche gli azionisti,  rappresenta il tentativo di porre il centro della Resistenza all'interno delle fabbriche. Da questo punto di vista, però, non fu un successo. Fu un successo il fatto, di nuovo, che non solo sotto il fascismo, ma addirittura sotto l'occupazione tedesca ci si muovesse e si scioperasse in maniera così massiccia. Però il collegamento tra moto nelle fabbriche e azione partigiana fu molto meno forte di quanto si sperasse. Gli operai rimasero un po' isolati dal movimento resistenziale armato delle montagne. Ci fu anche un'abile politica tedesca, condotta dai generali Zimmermann e Leyers, che non risposero solo con misure repressive. Lo sciopero ebbe una fortissima eco, un significato simbolico enorme. Ma, anche se la conflittualità poi non si spense mai del tutto, la Resistenza imboccò più decisamente, dopo, altre strade.

RS: Diceva che il progetto repubblichino di far eleggere le commissioni interne fallisce. Ma quali sono gli strumenti che gli operai si danno? Quanto conta, se conta, la memoria dei consigli dì fabbrica del '19-20? I comunisti ritornano a quell'esperienza? E gli azionisti, impegnati in vivaci discussioni intorno al nuovo Stato che dovrà sorgere dopo la guerra, quale valore assegnano a questi organismi?

Pavone: Gli strumenti, una volta sconfitto il tentativo fascista di tenere in piedi le commissioni interne, sono i comitati d’agitazione e i Cln in fabbrica. Non c’è, come è evidente, una perfetta corrispondenza tra i due organismi, perché i secondi sono una filiazione dei partiti. E i comunisti stanno con un piede di qua e uno di là. Vogliono mantenere l'unità del Cln, nello stesso tempo non vogliono perdere il contatto diretto con la classe operaia. Mi chiede quanto contò la memoria dei consigli di fabbrica. Vittorio Foa, che faceva parte di quell'ala del Partito d'azione che in qualche modo cercava anche di collegarsi alla tradizione consiliare, sostiene che c'era un influsso generico. Certo, alcuni intellettuali del Partito d'azione, alcuni suoi dirigenti ritenevano che i consigli potessero essere un modo anche per superare le forme di democrazia parlamentare entrate in crisi tra il primo e il secondo conflitto mondiale un po' ovunque, e non solo dove si era affermato il fascismo, come in Italia o in Germania. Bisogna dire però che questo filone non ebbe grande successo.

RS: Il partito comunista, comunque, non riprende la tematica gramsciana.

Pavone: Direi di no. Il Pci si era ormai adeguato all'evoluzione avvenuta in Unione Sovietica, che sebbene si chiamasse “sovietica” di sovietico ormai non aveva più nulla. Il predominio assoluto del partito sui consigli operai era ormai un dato di fatto sin dai tempi di Stalin, se non di Lenin. I comunisti danno vita agli “organismi di massa”, il Fronte della gioventù, i Gruppi di difesa della donna, con cui cercano di far rinascere dei movimenti dal basso, non direttamente partitici, ma che lasciano pur sempre l'ultima parola al partito. Il che non significa, naturalmente, che si trattava di un gioco delle parti; non era però un'esperienza consiliare.

RS: Lei ha sostenuto che il rapporto tra conflitto di classe – “guerra di classe", ha scritto – e guerra patriottica non è lineare, presenta delle tensioni. In che senso?

Pavone: Nei lavoratori c'è indubbiamente un intreccio di motivazioni non tutte con facilità convogliabili verso un unico obiettivo. Nel libro lo avevo espresso con una battuta, dicendo che l'ideale per un operaio politicizzato poteva essere quello di avere un padrone nello stesso tempo collaborazionista e neofascista. Purtroppo, però, i padroni non sempre davano la soddisfazione di concentrare tutti questi caratteri negativi. Questo allora cosa significa? Che in effetti le motivazioni economiche, che viste in un quadro generale sono un fatto politico, come abbiamo detto prima, viste su scala più piccola possono effettivamente contrastare con la coscienza politica, con la coscienza patriottica. Ma il patriottico, poi, può essere anche una cosa a due facce. Da un lato la patria tradizionalmente intesa, dall'altro il fatto concreto di vedere nel tedesco, nell'occupante che s'incontra ogni giorno per strada, un po' l'ultima istanza del potere: colui che tiene in piedi i fascisti, colui che accorre in soccorso del padrone se le cose per quest'ultimo si mettono male. Ecco, in questo caso la fusione dei due motivi, quello legato alla condizione materiale e quello patriottico, diventa più facile. E i tedeschi più intelligenti lo capirono, cercando a volte di apparire disposti più dei fascisti a fare concessioni. Il generale Leyers, che aveva il compito di controllare l'industria italiana, fu da questo punto di vista una figura emblematica. La recente ricerca di Lutz Klinkhammer (L'occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, ndr) evidenzia bene la compresenza, nei tedeschi, di due linee. Una era la repressione violenta, totale, il pugno di ferro con la deportazione dei lavoratori e il trasferimento dei macchinari in Germania. L'altra, che poi sostanzialmente prevalse, puntava invece a sfruttare il lavoro degli italiani in Italia. E qui, forse, il fenomeno del collaborazionismo presenta i suoi nodi più delicati.

RS: In che senso?

Pavone: Praticamente si creava un circolo vizioso. Dicevano in sostanza gli industriali alle maestranze: se non volete essere licenziati le fabbriche devono continuare a funzionare; ma perché funzionino è necessario accettare le commesse dei tedeschi, gli unici che ci diano lavoro; non ci accusate di collaborazionismo, quindi; se siamo collaborazionisti, voi lo siete perlomeno quanto noi. A questo punto una piena fusione dei motivi economici e di vera e propria sussistenza, non morire di fame e di freddo, con i motivi patriottici, diventava un po' difficile. Qui poteva rompersi la convergenza tra motivi patriottici, nazionali, antifascisti e motivi di classe.

RS: Tutto questo significa che quella rottura con il trasformismo cui lei prima accennava non vale, o vale solo parzialmente, per gli industriali?

Pavone: Per gli industriali la rottura vale certamente di meno. Gli industriali sapevano bene come sarebbero andate a finire le cose. Si trattava allora di sopravvivere il meglio possibile, fare qualche buon affare con i tedeschi, dare qualche soldo ai Comitati di liberazione, tener buoni gli operai con qualche piccola concessione. Si barcamenavano alla meglio, erano dentro la cattiva tradizione trasformistica. Da questo punto di vista, chi si comportò in maniera simile, se il paragone non suona irriverente, fu la Chiesa, perlomeno l’alto clero. Sono fenomeni diversi, che però hanno in comune il fatto di essere elementi forti di continuità con il passato. Insieme a quel che accadde nella pubblica amministrazione. Il fallimento dell'epurazione, a guerra finita, significa che l'apparato burocratico dello Stato è passato attraverso la tempesta quasi indenne: al Sud ma anche al Nord. Attenzione, però. Quando prima parlavo di rottura con il trasformismo alludevo alle minoranze attive, anche quelle di parte fascista, che parteciparono alla guerra. Le minoranze che fecero la Resistenza goderono poi dell'appoggio di larga parte della popolazione.