La condizione delle donne, i giovani, il lavoro e la disoccupazione, la guerra e la Storia, voltarsi verso il passato per decifrare il presente. Il Festival di Venezia come sempre lancia uno sguardo al sociale: la 73esima edizione della Mostra diretta da Alberto Barbera si apre mercoledì 31 agosto, nella classica cornice del Lido di Venezia. Al solito, tra i film che inseguono il Leone d'oro, c'è spazio per il cinema impegnato sia italiano che internazionale. Ad assegnare il massimo riconoscimento e i premi collaterali sarà la giuria presieduta da Sam Mendes, il regista di American Beauty e Revolutionary Road.

Prima di tutto, però, la kermesse si inaugura con la serata di pre-apertura: martedì 30 agosto si proietta in versione restaurata Tutti a casa di Luigi Comencini, uscito nel 1960. Il classico della nostra commedia, con protagonista Alberto Sordi, racconta l’8 settembre 1943, il momento dell'armistizio con i soldati dell'esercito regio improvvisamente abbandonati a se stessi, smarriti e costretti ad affrontare la nuova situazione. "Tutti a casa - scrive la Biennale nella presentazione - è uno tra i più celebri e riusciti esempi di ciò che ha reso immortale la commedia all’italiana: l’impasto di comico e drammatico, di vero e grottesco, di coraggio e voglia di sopravvivere".

Poi via al concorso. Tra i nomi pesanti, tra Malick e Wenders, l'Italia schiera in competizione Questi giorni di Giuseppe Piccioni: in una città di provincia quattro ragazze al termine degli studi si interrogano sul loro futuro. Le protagoniste partono per Belgrado in cerca di un'occasione di lavoro. Una donna al centro anche in Piuma di Roan Johnson, qui alle prese con una gravidanza: Ferro e Cate sono due adolescenti che intrecciano una relazione, sorpresi dalla notizia che lei è incinta proprio alla vigilia degli esami di maturità. L'altra pellicola italiana è Spira Mirabilis di Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, maestri del documentario, artisti visivi e concettuali: il film, si legge nelle anticipazioni, "vuole raccontare quattro 'storie di immortalità', girate in quattro luoghi differenti del mondo. Gli elementi e la loro percezione si confondono in immagini e suoni".

Jackie di Pablo Larraìn

Il regista francese Stéphane Brizé ha colpito nel segno con La legge del mercato, già diventato un instant classic del cinema sul lavoro dei nostri anni (qui la recensione e l'intervista all'attore protagonista Vincent Lindon): ovvio allora che abbia ottenuto la competizione veneziana col nuovo film Une vie, liberamente tratto dal romanzo di Guy de Maupassant. Nella messinscena del capolavoro letterario, Brizé sposta la lente dal lavoro alla condizione femminile: storia di Jeanne tra i 18 e 45 anni, donna di inizio Ottocento sensibile e troppo protetta, educata in convento, destinata a un matrimonio infelice.

C'è invece la guerra a segnare il ritorno di Emir Kusturica con On a milky road: la storia d'amore tra un uomo (lo stesso Kusturica) e la moglie (Monica Bellucci) chiamati a sopravvivere negli anni del conflitto nei Balcani. Si torna alla Seconda guerra mondiale con Paradise del russo Andrei Konchalovsky: le vicende di tre personaggi si intrecciano proprio sullo sfondo delle ostilità con l'obiettivo palese della memoria, come dice il regista, per evitare il ripetersi di ciò che è stato. Il motivo dell'amore omosessuale percorre tutta la filmografia di François Ozon: così anche in Frantz, ambientato nella Germania del 1919. Un affresco sociale del Messico è previsto ne La region salvaje di Amat Escalante.

Tra le figure più attese del festival ecco l'affresco del grande personaggio, Jacqueline Kennedy, in Jackie di Pablo Larraìn, uno dei maggiori registi cileni: la moglie di John Fitzgerald Kennedy, interpretata da Natalie Portman, viene seguita nell'arco di quattro giorni che conducono all'assassinio del marito. Più che mai attuale, più che mai politico, sulla carta l'intreccio si riflette direttamente nel contemporaneo: ai tempi cupi dei proclami di Donald Trump, con le presidenziali alle porte, è probabile che la giura di Mendes consideri questo titolo in sede di premiazione.

Assalto al cielo di Francesco Munzi

Molti spunti anche nelle altre sezioni, impossibile citarli tutti. Nel doc Assalto al cielo di Francesco Munzi si raccontano le lotte politiche extraparlamentari negli anni compresi tra il 1967 e il 1977, ricostruite dalla prospettiva dei giovani. Monte dell'iraniano Amir Naderi inscena la quotidianità di una famiglia povera nel Medioevo. Austerlitz dell'ucraino Sergey Loznitsa si concentra su un luogo del ricordo, creato nell’area del precedente campo di concentramento.

Ma il film più sociale sembra essere In Dubious Battle di James Franco: il cineasta e attore americano adatta il romanzo La battaglia di John Steinbeck (1936). È la storia di Jim e Mac, attivisti comunisti e membri del sindacato, che arrivano tra i lavoratori stagionali nei frutteti della California, sfruttati e malpagati, per organizzare un grande sciopero contro i padroni negli anni della Grande Depressione.

All'inizio Jim si convince ad entrare nel Partito e nel movimento dei lavoratori. Così Steinbeck, nella traduzione di Eugenio Montale:

 Jim lo guardò fisso. “V'è capitato mai di lavorare, finché giunto alla perizia del mestiere, quando credete di guadagnare un po' meglio, siete cacciato e un altro vi prende il posto? O di lavorare dove tutti parlano di lealtà verso la propria azienda, e lealtà vuol dire spionaggio dei propri dipendenti? Diavolo, vi dico che non ho niente da perdere”.
“Nulla se non l'odio”, disse calmo Henry. “Sarete ben sorpreso quando vi accorgerete di non odiare più i vostri simili. Non so perché, ma è ciò che di solito accade”.

La crisi che ciclicamente ritorna, le proteste di ieri come quelle di oggi. Aspettiamo la versione di Franco, purtroppo collocata fuori concorso.