Cleveland, 15 settembre 2014

Home, sweet home. Una lavagnetta di legno anticato, verde e gialla. Sta proprio di fianco al colossale frigorifero a due ante. È ricolmo di damigiane di latte, enormi bottiglioni di succo di frutta, spropositate latte di Coca cola. In mezzo c'è un'isola di legno e metallo, di lato un grande tavolo con le sedie, di fronte due lavelli e una finestra. A sinistra il forno e i fornelli, il vero cuore pulsante di una cucina che da quando sono arrivato non ha mai smesso di friggere, impastare, cuocere, sfornare. Tutt'intorno, c'è la casa. Da una parte le stanze da letto, dall'altra il salotto, sotto gliu basemento (basement - seminterrato), dietro la yarda (yard - orto), davanti il giardino. Affianco c'è un'altra casetta, molto simile, e un altro giardino, del tutto identico. E poi un altro, e un altro ancora, fino ad arrivare a gliu storo (store – negozio). Giùincittà (Downtown – il centro) è lontano, una ventina di minuti di superstrada. Lì ci sono i grattacieli, lo stadio del baseball, quelli del football e del basket. C'è la Hall of fame del Rock 'd roll e il grande lago che sembra un mare. Qui invece solo casette a uno o due piani, con tetti spioventi, giardini, alberi e scoiattoli. In mezzo, la strada di mattoni rossi: Courtland Avenue. Una delle ultime sopravvissute all'asfalto, unico appiglio a cui aggrapparsi forte per provare a non perdersi nella geometria perfetta di questo sobborgo sterminato. 

- Quando siamo arrivati la prima volta stavamo laggiù - Zia Linda indica l'inizio (la fine?) della via – poi dopo un po' ci siamo spostati in questa casa, ché era un po' più grande.
Si accende una sigaretta sotto la verandina di legno. Cappuccino, uno dei cani più brutti e più intelligenti che abbia mai visto, le salta in grembo. Lei lo accarezza.

- Good boy, Good boy – gli fa. E quello gongola con gli occhi socchiusi che pare un cristiano.

- Laggiù ci abitava la mamma di Giovanni. Bernardina e Antonio stanno dall'altra parte. Due strade più in là ci sta Felicetta, mentre Gianni e Peppinella stanno proprio qua dietro. Mio cugino Luigino vive due case più giù, sempre a Courtland, ma non esce mai di casa. E questi siamo, ormai. Pochi. Prima eravamo assai, ma ora sono morti tutti e i figli se ne sono andati via. Chi giùincittà, chi a Sud verso Parma, chi a Est...

Fa una pausa. Fissa l'omaccione di colore che entra nella porta di fronte. Indossa una canottiera da basket oversize e un berretto da baseball bianco, portato sghembo. È davvero enorme. 

- Siamo rimasti proprio pochi – ripete, e accarezza di nuovo Cappuccino.

Zia Linda è arrivata a Cleveland che aveva 15 anni, nel 1956. Zio Giovanni era appena più vecchio, ma era già emigrato con i suoi genitori subito dopo la guerra. E' stato un matrimonio combinato, questo è quanto. E non c'è da meravigliarsi troppo. Vivere a Coreno, in quel periodo, era davvero dura. In famiglia c'erano troppe bocche da sfamare, quasi tutte femmine tra l'altro. A lei, però, è andata più che bene. Perché con suo marito si sono amati per oltre mezzo secolo, fino al giorno in cui Zio Giovanni è morto, un paio d'anni fa. Allora Zia Linda è rimasta sola in questa casa di periferia.

La storia della sua partenza è un altro capitolo di un romanzo familiare che non finisce di stupirmi. Nonno Gaspare la portò a Napoli, al porto. Sul molo, con la valigia poggiata di lato, piangevano entrambi. A un certo punto la baciò in fronte, e le sussurrò poche parole in un orecchio:

- Sali, e non ti voltare. Guarda davanti a te, solo davanti. Non ti girare mai.

Zia Linda s'arrampicò svelta sulla scaletta, col vento che le scompigliava i capelli. Mise piede sul ponte di poppa del maestoso transatlantico. Non obbedì, però. E si voltò verso il porto, che era pieno di gente intenta a sventolare fazzoletti. Vide suo padre immobile, di spalle, con la coppola ben calcata sul cranio. Diventava sempre più piccolo, insieme a tutto quello che lo circondava. Zia Linda lo capì subito che quelle spalle ingobbite e minuscole erano il suo passato che s'allontanava in fretta. Erano la sua famiglia, il suo paese, tutta la sua vita che scappava via. Dall'altra parte, a prua, c'era qualcos'altro, qualcosa di completamente diverso. Un futuro di cui non sapeva assolutamente nulla, e che la spaventava assai. Sarebbe tornata in Italia quattro anni dopo, e solo per tre settimane. Con un marito sottobraccio, le foto a colori del matrimonio chiuse in valigia, e due figli piccoli stretti al petto. La volta dopo i bambini sarebbero stati già quattro.

- Io a Lacchiarella ci ho fatto la prima elementare, ma non mi ricordo quasi niente, ero troppo piccola. All'inizio mi sono pure presa il morbillo e sono stata  male per un bel po'. Mi ricordo solo tanta nebbia, una bella piazza, e un castello di mattoni. Le scuole le ho finte a Coreno, poi sono venuta qua...

In un sobborgo di Cleveland, Ohio. In quella che dopo la guerra, a poco a poco, è diventata Little Coreno. È per questo che quando qualcuno arriva dall'Italia è oggetto di un pellegrinaggio infinito. Negli ultimi giorni si sono presentati a decine, a ogni ora, e mai a mani vuote. Sono per lo più anziani, che ti chiedono di raccontargli di un paese che non esiste più, e che parlano un dialetto cristallizzato che non riesco proprio a capire. In certi casi conoscono solo qualche parola in inglese, e ti chiedi come abbiano fatto a sopravvivere qui per tutto questo tempo. Seduti in salotto, ti raccontano tutta la loro vita. Lavoro, sacrifici e poco altro. Ma anche l'enorme soddisfazione di aver cresciuto dei figli americani al centopercento, ricchi magari, e perfettamente integrati. Qualcuno di questi vecchi ha pure fatto fortuna. Eppure continua a soffrire i morsi di una nostalgia infinita, che lo attanaglia da decenni, senza tregua. È come se, nonostante tutto, la terra di Coreno gli fosse rimasta sotto le unghie. La nostalgia è un tarlo che li rode da dentro e gli fa marcire il cuore, oppure che li spinge verso uno spirito di rivalsa che fa comunque tenerezza. Questi vecchietti si sentono italiani a tutti gli effetti, forse anche più di quelli che sono rimasti in paese. Vivono qui, certo, ma sono in esilio.

Zia Linda, invece, è diversa. Lei è più americana degli altri. Lo capisci da come parla, da come si veste, da come fuma le sue sigarette al mentolo. E da come vive la sua passione per i Cleveland Browns. Spesso va allo stadio del football con sua figlia Joanne, indossando la maglietta e il cappellino arancione d'ordinanza. Le partite in trasferta invece le guarda in televisione, e le commenta col piglio degli addetti ai lavori. Da quando Zio Giovanni è morto, però, passa almeno quattro mesi all'anno a Coreno. Sta in Italia e pensa ai figli a Cleveland. Sta in America e pensa ai fratelli al paese. Dentro di lei ci sono due nazionalità, due identità, due vite del tutto diverse. Eppure riesce a conviverci senza problemi. Ha trovato un suo equilibrio, in qualche modo. Forse perché prima di arrivare qui la sua vita aveva già subito uno strappo profondo. È come se quell'esperienza durante la guerra l'avesse preparata a quello che l'aspettava, come se l'avesse resa più adatta ai cambiamenti. A Coreno, in fin dei conti, ci ha passato solo pochi anni. È stata prima profuga bambina, poi immigrata adolescente, dopo ancora madre e moglie italo-americana. Oggi ha solo un passaporto, ed è quello blu con l'aquila sul dorso. Ma è un dettaglio.

Profughi, immigrati, nazionalità, identità, esilio. Parole che si accavallano di nuovo, che si confondono, che si smarriscono.   

- Papà ha fatto un viaggio lungo per ritrovarci quando stavamo a Milano. Però non ce l'ha mai raccontato per davvero. Sì, qualcosa ce l'ha pure detta, ma tante altre no. Era come se gli mancassero le parole...

Accarezza ancora Cappuccino, si accende un'altra sigaretta al mentolo. Osserva uno scoiattolo che s'arrampica veloce su un tronco di Courtland Avenue.

- Io qua ci sto bene. C'ho i figli, i nipoti, la parrocchia, gli amici. Però sto bene pure quando vado a Coreno. Là ci stanno tutti i parenti, ci stanno Giona, Argentina, Maria. Alla fine della guerra, noi potevamo pure rimanere al Nord. C'era tanto lavoro, c'erano le fabbriche. Magari se mamma e papà avessero deciso così, io non ci sarei proprio venuta in America. Chissà...

Passato, presente, nostalgia, destino, rimpianto forse. Altre parole, ma non ancora quelle giuste. Ne manca più di qualcuna all'appello.

Qualche tempo fa in “Timira”, un libro di Wu Ming 2 e Antar Mohamed, ho letto una frase che m'è rimasta scolpita nella mente: “Siamo tutti profughi, senza fissa dimora nell'intrico del mondo. Respinti alla frontiera da un esercito di parole, cerchiamo una storia dove avere rifugio”.

Forse tutte queste parole, insieme a quelle che ancora non ho trovato, respingono anche me. Forse questa storia, la storia dei miei nonni e dei miei zii, è davvero il rifugio che sto cercando.
E forse tutto questo vale anche per Zia Linda.

(Questo pezzo è un estratto da Carlo Ruggiero, Giona, Quando i profughi eravamo noi, Round Robin editrice 2016. Un libro che racconta la storia di una famiglia di profughi. Eppure non erano somali, siriani o afghani, e nemmeno curdi. Erano di un paesino di poche anime arroccato sui monti Aurunci, neanche 150 chilometri da Roma. Questa storia è successa settant'anni fa, ed è iniziata sotto le bombe di Montecassino. Quando si scava nei ricordi, però, di solito ci si sporca le mani, c'è sempre il rischio di graffiarsi. E di scontrarsi con una presente che non è molto dissimile da quel fosco passato. Perché la Storia (quella con la S maiuscola) si ripete sempre due volte. La prima come tragedia, la seconda pure.)