Con la polvere che si è depositata sul deplorevole referendum britannico, anche le poche buone notizie riguardanti l’Europa hanno ricevuto scarsa attenzione. Da più di 30 anni, l’Ue permette ai datori di lavoro e ai rappresentanti dei lavoratori di negoziare e di fare accordi che migliorano le condizioni di lavoro e i diritti dei lavoratori in tutta Europa. In questo periodo a livello intersettoriale il cosiddetto dialogo sociale ha ottenuto una lista di conquiste che riguardano il part time, il congedo parentale, lo stress sui luoghi di lavoro, la violenza e le molestie sul lavoro, la formazione continua e altro, così come una serie di programmi congiunti sul lavoro autonomo. Non solo. Più di 40 diversi settori industriali hanno lanciato anch’essi i propri comitati per il dialogo sociale, sotto l’ombrello dell’Ue, negoziando benefici concreti per i lavoratori, dai tranvieri ai parrucchieri.

Il 27 giugno i partner sociali – la Ces e le organizzazioni dei datori di lavoro BusinessEurope, Ceep e Ueapme –, insieme alla Commissione europea e al Consiglio, hanno firmato un comunicato congiunto di impegno a “Una nuova partenza del dialogo sociale”. Essi hanno comunemente espresso l’idea che questa nuova partenza dovrebbe portare a un coinvolgimento rafforzato dei partner sociali nella policy dell’Ue, riconoscendo che “il dialogo sociale è un fattore cruciale e uno strumento benefico per un’economia di mercato ben funzionante”, e chiamando gli Stati membri a coinvolgere da vicino i partner sociali nel disegno e nella realizzazione delle politiche economiche. Un altro passo significativo nella formalizzazione del ruolo del sindacato nel policy making dell’Unione.

Fu Jaques Delors nel 1985 ha lanciare una cornice strutturata per il dialogo tra i sindacati e gli imprenditori nell’Ue: un pezzo importante di un processo di coinvolgimento di chi conosce i luoghi di lavoro più da vicino, sia le aziende che i lavoratori, ma anche una dimostrazione di quanto l’Ue abbia qualcosa da offrire loro – una pietra miliare della dimensione sociale dell’Unione –. Ma i risultati del dialogo sociale europeo negli ultimi anni sono stati deludenti. Un problema è stato l’esitazione e, talvolta, un chiaro rifiuto a ingaggiare pienamente un negoziato all’interno del dialogo sociale da parte delle associazioni degli imprenditori. Durante la crisi economica, in qualche Stato membro, il dialogo sociale nazionale semplicemente non è esistito o non è riuscito a proteggere i lavoratori dal peggioramento delle condizioni di lavoro (incarnato in una serie di contratti insicuri e precari, a chiamata, nel part time non volontario, nei falsi free lance e nelle piattaforme on line).

Le perdite di posti di lavoro anche in Paesi con buone o eccellenti performance economiche, le retribuzioni contratte per tenersi al passo con gli incrementi di produttività. È per questo che, in qualche Paese dove i partner sociali non hanno concluso accordi o non hanno avuto la possibilità di farlo, definire minimum wage è più importante di prima. Ma una pre-condizione significativa per il successo del dialogo sociale europeo, con risultati tangibili negli Stati membri, è un funzionante dialogo sociale nazionale. In vari Paesi, accordi conclusi a livello Ue che avrebbero dovuto essere applicati, non lo sono stati. Qui i partner sociali mancano di esperienza e risorse e organizzazione per realizzare e portare avanti gli strumenti comuni. Per questo la Ces sottolinea con soddisfazione l’impegno della Commissione a “sostenere la capacità di costruzione attraverso l’apprendimento reciproco, l’identificazione e lo scambio di buone pratiche”. La Commissione ha il dovere di assicurare che i governi nazionali adempiano ai loro obblighi derivanti dal Trattato e mettano in atto strutture di sostegno che promuovano il dialogo sociale – sia esso a livello bipartito che tripartito –, a seconda delle tradizioni nelle relazioni industriali.

Nel 2015, il neo eletto presidente della Commissione, Jean Claude Juncker, all’inizio del suo mandato ha dichiarato la sua intenzione di essere “il presidente del dialogo sociale” e più tardi, quello stesso anno, il congresso della Ces a Parigi ha affermato: “È assolutamente essenziale far rivivere il dialogo sociale in Europa”. Ciò significa che l’Ue e gli Stati membri devono realizzare risultati e non solo comunicati. Gli strumenti ci sono, ma c’è altrettanta volontà politica? I sindacati vogliono contribuire al rilancio del dialogo sociale. Ma se viene fuori che si tratta solo di rispetto puramente formale, e non di risultati tangibili per i lavoratori, le imprese e i servizi pubblici, si aggiungerà ancora più frustrazione nei riguardi della politica sociale europea. La Ces è pronta a giocare il suo ruolo, ma tutti gli attori che hanno firmato il comunicato congiunto del 27 giugno dovrebbero agire allo stesso modo.

Il benchmark è chiaro: il dialogo sociale genererà condizioni di vita e di lavoro migliore per i lavoratori europei. Non risolverà tutti i problemi che affrontano le persone che oggi lavorano in Europa, ma a partire da esso il sindacato può aspettarsi di essere al tavolo per far sentire le sue opinioni sul policy making economico e sociale. L’Ue ha riaffermato l’importanza del dialogo bipartito e tripartito tra i sindacati, gli imprenditori e anche le pubbliche autorità, sia a livello europeo che nazionale. Ma il dialogo sociale ha valore solo quando gli accordi sono pienamente applicati e diventano realtà tangibile. Il 27 giugno sarà una data storica se tra tre o quattro anni potremo dire che lo abbiamo realmente fatto per i lavoratori europei.

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