Il 2 agosto 1980 alle 10 e 25, nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna, affollata di turisti e di persone in partenza o di ritorno dalle vacanze, un ordigno a tempo, contenuto in una valigia abbandonata, viene fatto esplodere causando il crollo dell’ala ovest dell’edificio. È il più grave atto terroristico avvenuto in Italia nel secondo dopoguerra: nell’attentato rimangono uccise 85 persone; oltre 200 i feriti. Le indagini si indirizzano quasi subito sulla pista neofascista. 

A un mese di distanza dal tragico evento, Aldo Giunti, all’epoca segretario confederale della Cgil, dice a “Rassegna Sindacale” (n. 32, 4 settembre 1980): “Sembra invertirsi quella che, purtroppo, è stata la regola del passato. Infatti tutti questi anni hanno registrato storie di sconfitte degli apparati dello Stato nella lotta al terrorismo, con inquinamenti, deviazioni, sospetti. Si volta pagina, ora? È ancora presto per dare una valutazione definitiva, gli stessi magistrati bolognesi affermano di essere all’inizio e che non ci sono bollettini di vittoria. Certo c’è un cambiamento in meglio: l’augurio è che si proceda con eguale, forte determinazione, per risalire da chi ha ideato ed organizzato la strage fino a chi l’ha progettata”.

“Anche sotto questo aspetto – prosegue Giunti – il ricordo delle esperienze che abbiamo alle spalle non può essere cancellato: è vero che qualche capo esecutivo del terrorismo, i più recenti Peci e Micaletto, è stato preso, però i ‘signori’ della violenza, i cervelli no, mai. La speranza di tutti è che ora le cose cambino. Conforta, anche in questa prospettiva, la dichiarazione dei magistrati sulla collaborazione ricevuta dai carabinieri, dalla Polizia ed anche dai servizi segreti. In questa direzione qualche significativo passo in avanti s’è compiuto, ma non tutto è ancora tranquillo: le prime polemiche dopo la strage, l’episodio di Russomanno, il fatto che tra gli arrestati ci siano nomi notissimi collegati da tempo al fenomeno eversivo lasciano ombre sull’operato dei servizi segreti, dimostrano che ancora ci sono incrinature o crepe da sanare …”.

Prosegue il dirigente della Cgil: “Uno Stato che dà la sensazione di un’impotente rinuncia alimenta la sfiducia, perde credibilità. Quando, come spessissimo è successo, cresce lo scollamento tra l’apparato dello Stato, la magistratura ed i servizi segreti, ed ognuno cammina per suo conto verso non si sa dove, allora la reazione della gente è permeata di sospetti, di paure, di rabbia, e fondamentalmente di sfiducia”. Tantissimi episodi sono lì, davano angli occhi e alla memoria di tutti a suffragare e rendere inquietante questa verità. È persino superfluo ricordarli tanto sono scolpiti nella mente, chiosa Angelo Galantini, il giornalista di “Rassegna”: le otto bare in San Petronio, il rifiuto della giovane parente di una vittima davanti alla mano tesa del presidente della Repubblica, i fischi della piazza. Molti, quel giorno e dopo, si sono domandati cosa sarebbe successo durante i funerali se non ci fosse stato Sandro Pertini. 

“È vero – ragiona ancora Giunti –, Pertini, con la sua figura politica, il prestigio morale, ha ‘tenuto’ una piazza che protestava ed esprimeva delusione, rabbia. Insieme al capo dello Stato ricorderei la presenza del sindaco ed il contenuto del suo discorso. D’altra parte siamo sempre lì: la reazione della gente è comprensibile, è giusta. Tutto quello che accade sul piano del terrorismo sembra sia stato scritto in anticipo, tutto appare ‘logico’, prevedibile e quindi, in buona misura, neutralizzabile. E invece tutto succede sempre con puntualità cronometrica. Adesso, e va ancora sottolineato con forza, la magistratura bolognese sta dimostrando che le cose possono cambiare. Ma finora cos’è successo? Qualche esecutore finisce dentro, chi regge le fila no”. 

Non bisogna dimenticare, sempre a giudizio di Giunti, che nella stragrande maggioranza il paese ha reagito bene, con slancio, saldamente. “Ci sono state grosse manifestazioni in tutta Italia, una risposta di popolo assolutamente all’altezza della gravità del momento. I lavoratori non si sono chiusi in casa, non se ne sono lavate le mani. Teniamo presente anche questo, quando mettiamo l’accento sulla delusione, l’amarezza, lo sconforto che ci sono stati. E del resto questo è il tratto caratteristico della nostra esperienza, su cui forse sarà opportuno esercitare una riflessione più approfondita. Dalla Resistenza in poi, i lavoratori hanno sempre coniugato la difesa dei propri diritti con la difesa strenua della democrazia. Anche in questo dato c’è una differenza con quanto è accaduto in altri paesi, penso alla Germania, alla Francia, alla Spagna, qui da noi c’è un merito grande del movimento operaio, democratico, sindacale”. 

Giunti prosegue rilevando che però, a questo, “si deve accompagnare il conseguimento di risultati concreti, tanto sul fronte della lotta al terrorismo che su quello delle riforme capaci di far compiere al paese un avanzamento sociale e civile. Se tarda ad imporsi un modo nuovo di governare, il legame delle masse con l’organizzazione della società non dura all’infinito, finisce ineluttabilmente per allentarsi”. La risposta alle polemiche sulla “mania scioperaiola” del sindacato, sulla sua presunta incapacità a rispondere al terrorismo diversamente che con le sospensioni dal lavoro, puntualizza Giunti, “sta nella storia del paese in questi anni. Il presidente del Senato, Enzo Biagi, Vittorio Gorresio e altri si sono chiesti cosa sarebbe successo se la reazione popolare non ci fosse stata. Ma chi è che ha sostenuto e dato coraggio alle forze dell’ordine e della magistratura che si sono battute contro l’eversione? Se dodici anni fa avessimo cominciato con le sottoscrizioni, oggi saremmo alle ‘Dame di San Vincenzo’. Ripeto, il tratto tipico, distintivo dell’esperienza italiana è la mobilitazione popolare, del movimento sindacale”.

Se il paese ha retto ai colpi tremendi inferti dal terrorismo (colpi più grossi di quelli sopportati dall’Irlanda, dalla Spagna, dalla Germania), questo, secondo Giunti, è dovuto alla classe operaia, che ha dimostrato che i terroristi erano isolati, non avevano consenso, si trovavano davanti una barriera invalicabile. “Ed è evidente che questo risultato non si ottiene solo con le lotte che seguono gli atti terroristici, ma con la mobilitazione permanente a difesa della democrazia, per elevarne quotidianamente i contenuti, per farle esplicare ogni potenzialità ancora inespressa. Chi ci critica sbaglia due volte: non solo non dovrebbe farlo, ma dovrebbe esaltare il ruolo che abbiamo giocato per il mantenimento della democrazia e per tenere aperte le prospettive del suo sviluppo”.

Un ultimo argomento. Il terrorismo può riuscire, si chiede il segretario confederale della Cgil, a modificare la psicologia della gente, le abitudini stesse di ogni giorno?  “Il pericolo c’è. Soprattutto c’è il pericolo che la gente perda la fiducia nella possibilità di cambiare, la ‘speranza difficile’ come la chiama Zangheri. L’obiettivo di fondo del terrorismo è questo. Se vince la paura, la chiusura negli egoismi, la rassegnazione e la sfiducia, allora sì che il terrorismo ne ha fatta di strada. Questo va assolutamente evitato, perché porterebbe ad adagiarsi su quello che c’è e a sostenerlo. Se si assume la filosofia del ‘chi mangia fa mollica’, come diceva Feliciano Rossitto, si segue il potente o il prepotente per raccogliere le briciole. E la speranza difficile, la speranza del cambiamento s’allontana fino a diventare un’illusione”.

*Ilaria Romeo è la responsabile dell'Archivio storico Cgil nazionale