Dopo un lungo silenzio, il governo si è deciso a riaprire il confronto con sindacato e associazioni sulla non autosufficienza. Il tema sembrava sparito dall’agenda politica. Come se nel nostro Paese non esistessero tre milioni di persone (vedi Network Na Rapporto 2015), di cui 2,5 milioni anziane, in condizioni di non autosufficienza. Senza contare i loro familiari, i volontari che si prendono cura di loro, le lavoratrici e i lavoratori che si occupano del settore delle Ltc (Long term care: cure a lungo termine).

La ripresa del dialogo è stata possibile, e resa credibile, perché il Fondo per la Na, pur assolutamente insufficiente, con soli 400 milioni di euro, da quest’anno diventa stabile (fino a oggi è stato finanziato anno per anno) e permette quindi di ragionare in prospettiva. Il governo ha presentato una bozza di proposta di Piano nazionale (Pna) e per una possibile definizione dei Livelli essenziali per la Na (Lesna). La Cgil, insieme allo Spi, e naturalmente con Cisl e Uil, intende contribuire al confronto con precise proposte, che hanno fondamenta solide nella Legge di iniziativa popolare sulla Na, per la quale sono state raccolte oltre mezzo milione di firme nel 2005 e che, fatti i necessari aggiornamenti, è del tutto valida: un’attualità della proposta che dimostra quanto poco sia stato innovato il nostro welfare.

E che il nostro sistema di welfare abbia una lacuna clamorosa nell’offerta di servizi e prestazioni per rispondere ai bisogni-diritti delle persone non autosufficienti, ce lo ricordano le istituzioni internazionali: dall’Organizzazione mondiale per la sanità (Oms) all’Ocse, con l’ultima revisione sulla qualità dell’assistenza in Italia. Il welfare italiano non ha saputo ancora organizzarsi di fronte alle trasformazioni della domanda sociale e di salute dovute ai cambiamenti demografici, invecchiamento della popolazione e riduzione dei componenti della famiglia in primo luogo. Oggi si vive molto più a lungo: si tratta di una conquista positiva, dovuta al miglioramento delle condizioni di vita e alla presenza di un servizio sanitario pubblico e universale.

Ma, soprattutto tra gli anziani, si vive male: sulla qualità della vita e sugli anni persi per disabilità, l’Italia si ritrova con i peggiori indicatori in Europa rispetto agli altri Paesi. E allora, come raccomanda l’Oms, bisogna rendere possibile a tutti tutto ciò che serve a vivere meglio: con la prevenzione primaria, l’adozione di stili di vita salutari, condizioni di vita buona e dignitosa (reddito, casa, istruzione, invecchiamento attivo). Si tratta di scelte decisive per prevenire e per ridurre gli anni di vita con disabilità. Ma il fenomeno della non autosufficienza, oltre che di prevenzione, ha bisogno di risposte fatte di prestazioni assistenziali e sanitarie.

E qui scontiamo le carenze più gravi. Spesso sappiamo che ricade sulle donne un doppio (e anche un triplo) ruolo: lavoro esterno, cura dei figli e dei genitori. Oppure che troppi cittadini, sempre tra gli anziani, rinunciano all’assistenza per ragioni economiche; mentre altri devono farsi carico di prestazioni sobbarcandosi costi che si rivelano catastrofici. Con le badanti (il Censis ne segnala oltre un milione) gli anziani e le loro famiglie hanno letteralmente inventato una risposta “fai da te”, che ha permesso di fronteggiare una domanda di assistenza altrimenti inevasa.

E sappiamo quanto siano diffuse le precarietà e le irregolarità. Ma soprattutto è evidente che non può essere questa la risposta a una domanda di assistenza così estesa e delicata, espressa dalle persone in maggiori condizioni di vulnerabilità. Certo è una modalità ormai consolidata, ma non può essere lasciata al “fai da te”, va governata. I tentativi più recenti di regolare il fenomeno, lodevolmente intrapresi da alcune amministrazioni regionali e comunali, non hanno coperto il vuoto del welfare pubblico. Insomma, serve assumere il tema della non autosufficienza come una delle priorità dell’agenda politica del nostro Paese, riguardando milioni di cittadini.

Per questo il confronto che si è aperto con il governo (qui servono anche le Regioni) non può restare confinato nella discussione su come utilizzare l’attuale fondo di soli 400 milioni. Per la Long term care viene stimata (vedi Ragioneria generale dello Stato) una spesa annua pari all’1,9% del Pil: 0,8% di spesa sanitaria e 1,1% di spesa sociale (in totale, quasi 30 miliardi di euro). È chiaro che va aperto un confronto all’altezza della sfida per un nuovo welfare che metta al centro il fenomeno della non autosufficienza. Questo vuol dire programmare un incremento graduale e progressivo, ma certo, del fondo e destinarlo esplicitamente a garantire i livelli di assistenza socio-assistenziali (in questo caso per la Na – i Lesna) che oggi non esistono, che vadano ad aggiungersi ai Lea sanitari e che devono essere integrati con questi.

Proprio l’annunciata revisione dei Lea della sanità può essere un’occasione per una maggiore integrazione fra servizi sociali e sanitari, condizione indispensabile vista la peculiare domanda di assistenza delle persone non autosufficienti. Così come l’identificazione dei cittadini in condizione di Na, tali quindi da aver diritto alle prestazioni/servizi, dovrà essere finalmente accertata attraverso l’adozione di criteri uniformi su tutto il territorio nazionale, armonizzando gradualmente quelli adottati nei differenti sistemi regionali senza inutili forzature, e secondo la classificazione internazionale dell’Oms.

Resta infine un tema delicatissimo: quello del necessario coordinamento fra le prestazioni dei Livelli essenziali (servizi) e le misure economiche erogate dallo Stato (trasferimenti monetari), che ovviamente non può intaccare diritti soggettivi acquisiti (magari per fare cassa) e che soprattutto deve aumentare e migliorare l’offerta del nostro welfare per la Na. Allora il Piano nazionale per la non autosufficienza su cui si è aperto il confronto con il governo può diventare una vera road map, da accompagnare con un confronto costante e costruttivo, e soprattutto con la partecipazione democratica che serve a dare slancio a ogni vera riforma.

Stefano Cecconi è responsabile delle Politiche della salute Cgil nazionale