Mentre nel resto dell’Europa, i lavori “accessori” sono stati sempre limitati e tracciabili, l’Italia si distingue inventando una nuova forma di precarietà per tutti. L’esplosione della vendita dei voucher, giudicata da tutti quanto meno sospetta, non fa arretrare il governo di un millimetro rispetto all’utilità di questo nuovo strumento per aiutare lo sviluppo occupazionale. Si va avanti a correggere le procedure, concentrandosi sulla tracciabilità, come se fosse l’unica causa a rendere inefficace questo strumento di assunzione. “Gli abusi, pur riconosciuti dall’Inps e dallo stesso governo – spiega Morena Piccinini, presidente dell’Inca – sono la fisiologica conseguenza di una scelta sbagliata, quella di aver esteso i voucher a tutti i settori, in modo indistinto, trasformando ogni tipo di lavoro in accessorio, anche quando non lo è”.

Una critica supportata dal dossier Inps: soltanto nel 2015, sono stati venduti 115 milioni di voucher, mentre quelli effettivamente riscossi sono stati 88 milioni, con una differenza di 27 milioni; un milione e 380mila sono i lavoratori che hanno percepito almeno un “buono” in un anno (di 7,50 euro, al netto degli oneri previdenziali), mentre i committenti (le aziende) sono state 473mila. Il dato è ancor più sconfortante se raffrontato con quello del 2008 (mezzo milione di ticket venduti), anno in cui l’uso del voucher era limitato alla remunerazione di piccoli lavoretti occasionali di studenti e pensionati, così come era stato pensato nella riforma Biagi del 2003. Otto anni fa, le persone interessate erano poco meno di 25mila, con un’età media di 60 anni. Oggi invece l’età si è abbassata a 36 anni e la maggioranza è composta di donne, mentre gli uomini si attestano al 48%. A dimostrazione che gli argini posti dal legislatore sono stati ampiamente superati, rivelando un uso indiscriminato e ben lontano dal suo originario scopo, che era quello di far emergere il lavoro nero.

Così, sotto la spinta di una potentissima ondata demagogica, negli ultimi 15 anni le cosiddette “nuove forme di occupazione” hanno progressivamente preso il posto del lavoro stabile, a tempo indeterminato. Nel caso dei voucher, un argomento spesso utilizzato dai suoi sostenitori è “così fanno altri paesi d’Europa”, con questo intendendo soprattutto Belgio e Francia. Ma è davvero così? Diamo uno sguardo veloce al funzionamento del sistema dei “buoni lavoro” nei due Stati membri dell’Ue a 28, tra i fondatori nel 1957 – assieme a Italia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi e Danimarca – della Comunità europea, primo vero pilastro della successiva Unione.

Belgio

In Belgio, il sistema dei voucher (Titres-services/dienstencheque) è stato introdotto dalla legge sui lavori e servizi di prossimità del 20 luglio 2001 ed è diventato operativo per la prima volta all’inizio del 2004. Obiettivo principale del legislatore era, da un lato, trasformare il lavoro nero in lavoro regolare, creando condizioni di stabilità per fasce di popolazione difficilmente occupabili e, dall’altro, favorire il ricorso ad alcuni servizi per una migliore conciliazione tra lavoro e famiglia. Il regime belga riguarda esclusivamente un numero limitato di servizi domestici, più precisamente le pulizie della casa e la stiratura. Questa limitazione è stata introdotta perché altri servizi alla persona, come l’assistenza domiciliare, sono sovvenzionati e regolati attraverso appositi canali professionali, mentre altri servizi domestici, come il giardinaggio e le piccole riparazioni, devono poter funzionare – secondo il legislatore – attraverso il mercato del lavoro regolare.

Non solo. Nel paese il voucher non è una moneta direttamente scambiabile tra cliente e lavoratore. Il sistema belga presuppone una relazione triangolare tra il lavoratore, il datore di lavoro e il cliente/utilizzatore. In pratica il cliente – che non può mai essere un’impresa – deve prima registrarsi e acquistare da un’unica società emittente (Sodexho, a partire dal 2014) un certo numero di voucher (massimo 500 per anno civile) per un prezzo unitario di 9 o 10 euro, secondo i casi. Successivamente, il cliente sceglie un’agenzia di servizio tra quelle accreditate all’impiego di lavoratori tramite voucher. Un accordo scritto tra il cliente e l’agenzia specifica in seguito il numero di ore di lavoro da svolgere ogni settimana. In questo rapporto triangolare, è sempre l’agenzia che gestisce l’invio del lavoratore al domicilio del cliente, e necessariamente attraverso la stessa agenzia passano tutte le comunicazioni tra cliente e lavoratore (ferie, malattia, assenze, cambiamenti d’orario ecc.).

Sul piano economico, il valore del voucher cambia in funzione del soggetto che lo utilizza. Per il cliente, l’acquisto di un voucher – equivalente a un’ora di servizi – costa, come abbiamo detto, 9 o 10 euro. Una parte di questo costo viene tuttavia recuperata sotto forma di deduzione d’imposta. Quest’ultima era del 30% nel 2015 ed è stata ridotta al 15% nel 2016. La deduzione è maggiore per le persone con basso reddito. Per l’impresa di servizi il valore finale del voucher è di 22 euro. Questo comprende un importo aggiuntivo di 13 o 12 euro, che lo Stato (dal 2016 la Regione) versa all’impresa per coprire una parte del costo dei salari e i costi aggiuntivi, come la formazione e la supervisione.

Per quanto riguarda il lavoratore, questi riceve un regolare salario mensile dal proprio datore di lavoro (che, ricordiamo, è l’agenzia di servizi e non, come in Italia, il cliente/utilizzatore finale), a cui è legato da un contratto che può essere – a seconda dei casi – a tempo pieno o part time e a durata determinata o indeterminata. Sulla base del contratto collettivo del settore, in vigore dal 1° febbraio 2013, la retribuzione oraria lorda di un lavoratore del sistema voucher deve essere pari almeno a 10,30 euro, superiore quindi al salario minimo legale (pari attualmente a 8,94 euro).

Francia

Il sistema francese dei voucher, detto brevemente Cesu (Chèque emploi service universel), è stato introdotto con la legge 841 del 26 luglio 2005 ed è entrato effettivamente in vigore il 1° gennaio 2006, in sostituzione del precedente sistema denominato Ces (Chèque emploi-service), creato nel 1994 per facilitare la messa in regola dei piccoli lavori domestici. Il sistema Cesu permette a una singola persona di utilizzare i servizi di un lavoratore assunto attraverso una società di servizi accreditata, ma a differenza del Belgio non vi è alcun obbligo in tal senso. In Francia il cliente può infatti utilizzare i voucher anche per assumere direttamente un lavoratore, come in Italia. Sei organismi sono accreditati in Francia alla vendita di voucher (tra questi la Posta e Sodexo), che possono poi essere utilizzati per pagare il lavoro domestico o anche servizi d’assistenza all’infanzia, non a domicilio, siano essi forniti da singole persone o da organizzazioni.

Come in Belgio, il ricorso al lavoro tramite voucher non è illimitato. In Francia questo può essere utilizzato per servizi occasionali, la cui durata complessiva sia inferiore alle otto ore a settimana, o per un mese l’anno (non rinnovabile). Può essere anche utilizzato per piccoli lavori regolari (per esempio, due ore ogni settimana), ma in tal caso un accordo di lavoro deve essere sottoscritto tra le parti.

Il sistema Cesu si declina in due forme

Il Cesu cosiddetto déclaratif non ha un importo predefinito. Si tratta di un sistema che permette a un singolo datore di lavoro (persona fisica) di dichiarare più facilmente il proprio dipendente che lavora in casa, a tempo pieno o part time, come aiutante nelle faccende familiari e domestiche (pulizie, sostegno scolastico, giardinaggio, assistenza alle persone non autosufficienti). Sulla base di ogni dichiarazione, il Centro nazionale Cesu stabilisce la busta paga e i corrispondenti contributi previdenziali – che comprendono malattia e maternità, indennità di disoccupazione, assegni familiari e pensione – e la trasmette al lavoratore per conto del suo datore di lavoro. Le dichiarazioni possono essere effettuate direttamente online o su un registro sociale cartaceo, e vanno trasmesse una volta al mese, al più tardi 15 giorni dopo la fine del mese lavorativo.

Il Cesu préfinancé è invece un titolo di pagamento a importo predefinito (tipo buono pasto) intestato al cliente utilizzatore e utile per pagare prestazioni di servizio alla persona o per l’assistenza all’infanzia. Come, appunto, per i buoni pasto, il sistema è finanziato in tutto o in parte dalle aziende, private o pubbliche, per i loro dipendenti. Può anche essere erogato anche da enti locali, organizzazioni sociali, fondi pensione, servizi sociali, enti previdenziali, a uso di alcune categorie beneficiarie dei servizi di assistenza sociale dedicati alla persona o alla custodia dei bambini. Questa formula consente al destinatario sia di retribuire direttamente un lavoratore domestico, sia di pagare – come anche in Belgio – un intermediario che mette dei lavoratori domestici a disposizione del cliente, sia ancora di pagare servizi di assistenza e cura dei bambini, compresi asili nido e servizi di dopo-scuola.

Un’ulteriore e più recente variante del voucher Cesu sono i cosiddetti Tese (Titre emploi-service entreprise), introdotti dalla legge 776 del 4 agosto 2008, per permettere alle piccole imprese con meno di 21 dipendenti di assumere e gestire lavoratori occasionali, occupati per non più di 100 giorni o 700 ore l’anno. Il sistema Tese non può essere utilizzato per i lavoratori agricoli, né per artisti e lavoratori del settore dello spettacolo. Come il Cesu, il Tese libera il datore di lavoro dall’obbligo di gestire egli stesso il contratto e la dichiarazione di lavoro, la busta paga e il calcolo dei contributi sociali.

Conclusioni

Sindacati e movimenti femminili denunciano l’effetto segregazionista di queste forme di lavoro. Sono quasi esclusivamente donne, infatti, le persone impiegate con questi sistemi. Così come sono donne anche la maggior parte dei clienti/utilizzatori. Le lavoratici in questione sono poi quasi sempre di origine straniera. E il fatto di lavorare esclusivamente in questo settore, dove le relazioni collettive sono quasi inesistenti, non aiuta certamente l’integrazione, la socializzazione o, peggio ancora, la partecipazione alla vita sindacale. Ciononostante, le differenze rispetto al sistema italiano sono radicali. Soprattutto la tracciabilità dei voucher, di cui tanto si discute in questi giorni nel nostro paese, è un elemento intrinseco dei sistemi belga e francese, fin dalle loro origini.