Nel 2008, insieme ad Angelo Ferracuti, ho curato per Ediesse un volume che raccoglie racconti e riflessioni sulla scuola. Si chiama “Consiglio di classe” Tra i contributi di rilievo ce n’è uno che continuo, quando lo rileggo, ad apprezzare particolarmente. Si intitola “La sedia sbilenca” e lo ha scritto Eraldo Affinati. Attraverso uno stile riconoscibilissimo che mescola efficacemente narrazione a riflessione – facendo diventare, anzi, la riflessione stessa racconto– Affinati spiega, dalla prospettiva della Città dei ragazzi di Roma dove aveva insegnato, la sua idea pregnante di scuola: sghemba, di lato, sempre in asimmetria e scarto laterale con la realtà e per questo capace di arricchirla.  E, soprattutto, la sua idea d’insegnante. L’educatore, per essere tale, deve rivelarsi pienamente nella sua umanità, mostrare le sue scelte, la maturità acquisita, “tagliando i rami da lui ritenuti secchi, ma anche, questo è sorprendente, i fiori più belli, e rigogliosi, che avrebbero potuto crescere bene, condurlo non si sa dove”.

Questo passo mi è venuto in mente leggendo l’ultimo libro di Affinati: “L’uomo del futuro. Sulle strade di Don Lorenzo Milani” (Mondadori, 18 euro), tra i candidati allo Strega. Non si comprende, infatti, fino in fondo, la complessità, anche le asprezze, di questa grande figura di maestro, se non si parte da questo stacco iniziale dalla famiglia agiata, da quel mondo di “Pierini”, come li chiama lui,  da cui Don Lorenzo parte per il suo viaggio verso gli ultimi e che lo porterà, in un decalage topografico costante, fino ai poveracci di Barbiana abbarbicati sul Mugello.

In questo suo ultimo libro l’elemento spaziale è fondamentale. Sin dal sottotitolo: “Sulle strade di Don Lorenzo Milani”. Il plurale declina con precisione il senso del percorso delineato. Sia quello del maestro, sempre plurimo, mai lineare e in costante confronto-scontro con la propria epoca e con le semplificazioni e strumentalizzazioni che la sua azione rivoluzionaria dovette subire, tirata per la giacchetta in direzioni che gli erano affatto estranee.  Sia quello del suo “narratore”, e cioè Affinati, che alterna – ai capitoli dedicati al prete degli ultimi – un suo proprio percorso nei luoghi più disperati del pianeta dove “c’è già chi, senza averlo mai conosciuto, né sapere niente di lui, segue il suo esempio”. Educatori, maestri, volontari: i nuovi Don Milani.

In parallelo, dunque, le pagine scorrono su un doppio asse: da un lato, Firenze, Milano, Montespertoli, Castiglioncello, San Donato di Calenzano e, infine, Barbiana; sull’altro asse, invece, Gambia, India, Pechino, Benares. A tenere insieme il tutto la scrittura di Affinati, che è ricca e sinuosamente argomentativa, senza però mai perdere ritmo e tempo del racconto: “È il lavoro che da sempre più ti appassiona: cercare i rapporti. Scoprire i nessi. Ricucire gli strappi. Mettere in relazione libri e destini. Uomini e avventure”.

È un libro coraggioso, questo, per più di un motivo. Innanzitutto accetta il rischio di confrontarsi con una figura tremendamente sopra esposta e diventata ormai, purtroppo, repertorio di citazioni usate non sempre a proposito.  Ma c’è un altro aspetto molto interessante: il racconto è scritto in seconda persona, il più rischioso dei modi, quello in cui l’autore parla a se stesso. Non solo: l’autore immagina anche che in alcuni casi sia Don Milani a rivolgersi a lui. Dunque ancora un seconda persona, di cui però questa volta l’autore è “oggetto”. Siccome la forma non è mai separata dal contenuto, si tratta di un particolare interessante che rivela la natura dialogica dell’opera. Perché se è vero che la “devozione” dell’autore non è mai messa in dubbio, l’insegnamento di Don Milani è sempre messo alla prova, trepidamente passato al vaglio con le analisi, i sentimenti, le testimonianze (quelle dei suoi ex allievi sono spesso commoventi) che hanno accompagnato la sua avventura.

D’altro canto è giusto che sia così. Guai a costruire santini. In effetti, l’idea di scuola di Don Milani – al di là della sua spinta ideale radicale che resta imprescindibile – può in alcuni casi lasciare interdetti. Così la descrive Affinati: “A Barbiana non c’era un tempo-scuola. Tutto si legava dentro la vita del maestro e dei suoi piccoli allievi. Non bisogna credere che fosse una semplice didattica. Si trattava piuttosto di un nuovo modo di vivere, nel segno dell’unità spirituale prima ancora che nel sogno del riscatto sociale”.  Qualche passo ancora, e siamo alla volgarizzazione di questa idea nell’Attimo fuggente di Peter Weir. Tuttavia, nella scuola di oggi, tecnicalizzata dalla pedagogia delle “competenze”, delle “abilità” e dei “saperi”, rileggere Don Milani, magari attraverso i sentieri tracciati da Affinati, non può che farci bene. Perché il tema è sempre quello: il punto di partenza con il quale ci affacciamo alla vita e le distanza economiche e sociali che tra di noi restano ancora abissali. Senza che sia stato ancora fatto nulla di decisivo per stemperarle: se è vero che ancora oggi,  il titolo di studio che ciascuno di noi consegue è quasi sempre legato a quello dei propri genitori.